Tempo di lettura: 5 min

testo e foto di Paolina Sturni
paolinasturni.com

Seduta nel fuoristrada guardo le grandi dune nel deserto del Namib. Non ne ho mai viste di così rosse. Sabbie di quarzo che tendono sino al viola. Hanno delle forme dolci e armoniose, si muovono e cambiano aspetto grazie al vento. Ci fermiamo per scalare la DUNA 45, LA PIÙ FOTOGRAFATA AL MONDO. PRENDE IL NOME DAL QUARANTACINQUESIMO CHILOMETRO DELLA STRADA CHE PORTA DA SESRIEM A SOSSUSVLEI, che ricorderò per il caldo e la grande fatica nel percorrerla. Fatica premiata una volta arrivata in cima grazie agli scatti che le dune, gli alberi anneriti, le loro ombre e i giochi di colori mi hanno permesso di portare a casa.
Il giorno seguente il gruppo si divide, io colgo la possibilità di prendere un piccolo Cessna a quattro posti per arrivare alla città di Swakopmund, sulla costa. La vista dall’alto è unica. Una dopo l’altra ci lasciamo alle spalle, con gli occhi estasiati, le imponenti dune colorate. Ognuna di loro forma disegni fatti di curve e linee, semplici ed eleganti. Questo spettacolo della natura mi fa dimenticare solo per qualche istante che sto volando su di un aereo grande quanto un Apecar, tra l’altro guidato da un ragazzo forse appena maggiorenne. Mi distrae dal pensiero un’ondata di freddo, il deserto finisce tragicamente a strapiombo sull’oceano. Abituata all’assenza di ogni forma di vita, ecco che una concentrazione di migliaia di otarie riunite sul bagnasciuga mi fa tornare alla mente la macchina fotografica. Il pilota comincia a guardarsi freneticamente intorno, come se ci fosse un problema al velivolo. In pochi secondi mi immagino ogni disgrazia possibile. Apre il finestrino dell’aereo e inizia a sbracciarsi, mentre un altro Cessna ci supera volando a pochi metri da noi! I piloti volevano solo salutarsi…


Siamo a Swakopmund, recente cittadina turistica fondata dai tedeschi nel 1892. È abitata maggiormente da bianchi e artisti, e frequentata da numerosi turisti in cerca di tessuti, pietre semi-preziose o diamanti. Abbiamo poco tempo e andiamo via. A Cape Cross incontriamo altre otarie; a Walvis Bay, un attivo porto peschereccio e commerciale, avvistiamo fenicotteri e pellicani a volontà. Poi decidiamo di affittare dei quad nel deserto e giochiamo a inseguirci come bambini. Il tempo di stuzzicare qualcosa e poi tutti a letto, sprofondiamo in un sonno profondo.
Ma manca qualcosa. È ormai una settimana che percorriamo spazi enormi, in auto e per almeno cinque ore al giorno. Suggestive pianure sconfinate. Gli incontri con gli animali selvatici sono tutti emozionanti, i paesaggi mi lasciano senza fiato come poche volte sono rimasta nella mia vita. Ma c’è ancora qualcosa che non mi soddisfa. Inizia a crearsi un vuoto dentro e mi si legge negli occhi. Dov’è la gente? Voglio conoscere chi abita questi luoghi. La fortuna è dalla mia. In questi giorni ho legato molto con la nostra guida namibiana, Charles, esperto e amante di ragni velenosi e scorpioni dai morsi mortali. E, soprattutto, persona dal cuore grande. Per mostrarmi la periferia mi propone di svegliarci alle quattro del mattino, sacrificando le poche ore nelle quali poteva riposarsi prima di mettersi alla guida.
Usciamo dall’albergo con il buio, e una volta fuori dal centro passiamo nel quartiere residenziale della città: lussuose ville con piscine e giardini si susseguono in viali verdi e alberati. Dopo poco giungiamo alla meta, in realtà vicinissima al al punto di partenza. Non ci sono altre auto, ma centinaia di persone camminano nel senso opposto. Ragazzi e uomini indossano tute blu dirigendosi verso le fabbriche. Bambini in uniforme bianca si apprestano a raggiungere le scuole. Vedendo le baracche di legno e cartone da dove escono mi stupisco di come siano tutti così curati. I vestiti puliti e stirati, i capelli delle femminucce acconciati con fermagli colorati o treccine di ogni genere. Parcheggiamo e cominciamo a camminare tra le loro case. Charles mi insegna alcune semplici parole in Afrikaans per salutare e presentarmi alla gente. All’inizio mi guardano sospettosi. Una volta spiegato loro dal mio amico che sono lì per conoscerli e, solo con il loro consenso, per fare delle foto, mi dimostrano con enormi sorrisi la loro felicità. Più curiosi di me, mi fanno mille domande. Com’è l’Italia? Quanto è lontana? Com’è il tempo? E si preoccupano chiedendomi se il viaggio in aereo fosse stato troppo lungo e faticoso. NON C’È ELETTRICITÀ E PRENDONO L’ACQUA DAI POZZI PAGANDOLA CON DEI GETTONI CHE SI VENDONO IN CITTÀ. Hanno poco spazio e le casette che sembrano volare via alla prima folata di vento sono piccolissime e sovrappopolate.
C’è una scuola-nido che permette a tutti i genitori di andare al lavoro. La maestra ci invita a entrare, fiera del lavoro che conduce con questi bambini. Ne parla come fossero tutti figli suoi. Nonostante la povertà, questa scuola è curata nei minimi particolari. Un posto solare e allegro, pieno di disegni e di alfabeti colorati sui muri. Contigua alla scuola c’è la sua casa, pochi metri quadri dove vive con i suoi veri sei figli e la madre sessantenne. Spiega che preferisce dedicare lo spazio alla scuola, troppo piccola per tutti.
In un paese grande tre volte l’Italia ma con una densità di popolazione pari a neanche tre abitanti al chilometro quadro, il mio viaggio in macchina si trasforma in un percorso introspettivo e di riflessione. Passiamo nella regione del Damaraland, anche questa semi desertica e arida. Ci fermiamo sulla strada per conoscere gli abitanti di un piccolo villaggio sulle colline, appartenenti al gruppo etnico dei Damara. Uno di loro con un accenno d’inglese ci spiega come vivono. Dice che qui la terra appartiene alla gente e che molte aree sono tutelate e protette. Ci presenta Johanna, sua nonna, che a ottantaquattro anni si sveglia all’alba per portare al pascolo il gregge. Di fronte a noi c’è una Mazda verde acceso che l’uomo confessa non usare mai e un carretto attaccato ad una coppia di asini. Ridendo dice che è un Kalahari Ferrari, il Testarossa del loro deserto. È il momento di un infuocato tramonto che rimarrà indelebile nei miei ricordi.
Il giorno dopo percorriamo la Skeleton Coast e i suoi paesaggi struggenti. Numerosi relitti d’imbarcazioni arenate e scheletri di animali. Incontriamo struzzi, orici, springbok, iene e sciacalli. Arriviamo a Opuwo, nel Kaokoland, in uno dei villaggi popolati dagli Himba, una tribù primitiva di pastori semi-nomadi, dove caramelle e farina sono il nostro lasciapassare. Bambini che giocano, donne che allattano. Indossano i loro vestiti tradizionali, gonne di pelle e sandali di cuoio. La loro pelle è coperta da grasso e polvere d’ocra per proteggersi dal sole e dagli insetti, e che li caratterizza per il colorito rosso e l’odore acre. Ad ogni età cambiano le acconciature e i gioielli. Collane, cavigliere e bracciali fatti di ferro, cuoio e grandi conchiglie della Skeleton Coast. Si respira un’atmosfera di quiete surreale, di pace e tranquillità. Con la mia Nikon mi sento di troppo. Le differenze con la nostra civiltà sono tante, GLI HIMBA VIVONO PASCOLANDO IL BESTIAME PER RICAVARNE IL LATTE, RACCOGLIENDO IL GRANO, GLI UOMINI CACCIANO E LE DONNE HANNO LA POSIZIONE DI COMANDO.
Trascorrendo del tempo nel villaggio, noto a malincuore che molte cose sono cambiate anche per loro. I bambini mi chiedono gli occhiali da sole e se li mettono per gioco, alcuni di loro conoscono addirittura la parola money, le donne indossano bracciali di plastica colorati e anelli di una cultura visibilmente diversa, regalati loro da qualche turista di passaggio. Mi spiegano che ormai alcuni uomini si recano in città a lavorare per guadagnare dei soldi e comprarsi bevande alcoliche. Non è forse ingiusto che io sia lì allora? Il loro mancato contatto con la nostra cosiddetta civiltà gli ha permesso di vivere in pace da sempre, mentre ora qualcosa sta cambiando.
Allora cos’è giusto e cosa sbagliato? Chi è il ricco e chi il povero? Dov’è il male e dov’è il bene? Sull’aereo per Roma ripenso a queste domande, e mi dico che tutto è relativo, che bisogna accettare il prossimo anche se diverso, perché potrà capitarti, un giorno, che un bambino di otto anni alla periferia di una piccola cittadina della Namibia ti dia una grande lezione di vita.

TRAVEL TIPS

PAESE NAMIBIA / VISTO NON È RICHIESTO PER I CITTADINI ITALIANI / VACCINI NESSUNO / COSA MANGIARE: LE OSTRICHE DI SWAKOPMUND € 1.50 L’UNA. LA TORTA DI MELE PIÙ BUONA D’AFRICA, NEL BAR SOLITAIRE, VICINO A SESRIEM QUASI 3 ETTI, € 2. BILTONG, STRISCE DI CARNE SECCA € 1 L’UNA / CONSIGLI GUIDARE CON PRUDENZA, O CON UNA GUIDA, SOPRATTUTTO NEL DESERTO

Solitaire, Namibia05
Solitaire Bar (la torta di mele più buona d’Africa) By Vberger (Own work) [Public domain], via Wikimedia Commons

Articolo precedenteOut for a Walk
Articolo successivoA casa del baba
Redazione the trip
The Trip Magazine nasce agli inizia del 2010 a Roma per proporsi come punto di vista alternativo al modo convenzionale di viaggiare. Siamo uno spazio virtuale per la promozione della cultura del viaggio e dei suoi protagonisti. Amiamo la natura e i paesaggi, la storia ed i monumenti, ma prima di tutto amiamo le persone e le dinamiche umane che si celano dietro di esse, a tutte le latitudini del mondo.