di Paolo Valoppi
illustrazione di Andromalis
“Dove sono nato convivevano polacchi, ucraini, russi, tedeschi, ebrei, cattolici, ortodossi, armeni e così via. Da allora ho sempre cercato di ritrovare quell’armonia tra genti e culture, e il giornalismo era una strada per andare a cercarla, come l’antropologia uno strumento per capire”.
Sono queste le parole con cui Ryszard Kapuściński, considerato uno tra i reporter più famosi al mondo, esprime la sua concezione di giornalismo e di come esso debba essere vissuto. Figlio di insegnanti poveri, Kapuściński nasce nel 1932 a Pinsk, una cittadina della zona più orientale della Polonia, e trascorre la sua infanzia in condizioni di miseria fino a quando non decide di trasferirsi per gli studi a Varsavia, dove successivamente si laureerà in storia dell’arte. Ed è proprio da qui che, cominciando a girare il mondo come inviato per diverse testate polacche con esigue risorse economiche, inizia il suo percorso giornalistico.
Il suo primo viaggio risale al 1956, quando viene mandato dall’organo della gioventù comunista in India: il presidente Nehru era appena stato a Varsavia e nel partito si riteneva opportuno occuparsi di quel paese. Rimane lì sei mesi, a causa della crisi di Suez che gli impedisce il ritorno, e già da questa prima esperienza Kapuściński decide di restare sul posto a sue spese, anche quando i riflettori si spengono, cercando, attraverso una conoscenza non superficiale dei luoghi in cui si trova, di offrire una testimonianza viva per costituire un’alternativa valida all’informazione dei mass media.
E sono proprio la sensibilità e l’umanità presenti nel descrivere luoghi lontani e spesso dimenticati che rendono il “giornalismo empatico” di Kapuściński unico nel suo genere.
Fino al 1981 lavora per l’agenzia di stampa polacca Pap, inviando corrispondenze da vari paesi dell’Africa, dell’Iran e dell’Urss. In quarantasette anni di viaggi è testimone di ventisette rivoluzioni, innumerevoli colpi di Stato e improvvisi cambi di governo dei più disparati paesi del globo, ed ogni parola, riga e articolo che scrive è ricavata dalla principale delle sue fonti d’informazione: confondersi con la gente del posto, mangiando, dormendo e vivendo a stretto contatto con loro, entrando nei dolori delle persone, con comprensione e compassione.
“Un buon reporter è colui che presta i propri occhi alla contemporaneità, che offre il suo sguardo agli eventi che divengono storia e li vive; solo ciò che si è vissuto si può raccontare, riportare ad altri”.
Ma nella vita di Kapuściński, il viaggio è sempre accompagnato da un’altra costante fondamentale: la scrittura. La realtà multiculturale, variopinta e caleidoscopica, fedele compagna del suo essere viaggiatore, diventa sempre letteratura. Nei suoi anni da giramondo pubblica numerosi libri-reportage che lo rendono famoso. I più celebri – “Il Negus”, “Viaggi con Erodoto”, “Imperium”, “Ebano” – sono ormai del classici per chi vuole orientarsi nell’età contemporanea. Combinando la passione di un mestiere con le doti narrative, Kapuściński riesce a scrivere dei reportage considerati veri esempi letterari, suscitando nei lettori stupore e meraviglia per la scoperta.
In un articolo scritto poco dopo la morte di Kapuściński si racconta che nel 2003, il giorno dell’abbattimento della statua di Saddam Hussein a Bagdad, gli inviati di tutti i giornali e di tutte le televisioni del mondo fossero riuniti per raccontare quel che potevano. Molti esageravano, la maggioranza gonfiava il petto. Essere così vicini alla storia dava la vertigine anche ai più pacati. Poi qualcuno se ne uscì con una domanda fuori tema: “Cosa avrebbe fatto Ryszard Kapuściński in un’occasione del genere?”. Il gruppo tacque, i più abbassavano la testa. Una ragazza polacca che per l’intera serata era stata zitta in apparente adorazione dei colleghi più scafati rispose: “Non sarebbe qui in albergo con noi. Lui sarebbe dall’altra parte, in qualche casa di iracheni”.