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Chi l’avrebbe mai detto che il biondino di diciotto anni che si scatenava in folli balletti nel film di Georges Lautner “Ne nous fachons pas”, un giorno sarebbe diventato un fotografo di fama internazionale, con un quantitativo di viaggi ed esperienze che persino la sua stessa memoria fatica a conservare.

La vita di Gerald Bruneau è un tuffo senza fine in un oceano di molteplici e variegate realtà, talmente diverse le une dalle altre da disorientare chiunque provi a metterci piede. Ed io mi ci sono persa. Quando lo osservo mentre controlla le sue foto al computer, con la sigaretta in mano, la televisione accanto a tutto volume, e lo sento dire: “Secondo te questa è troppo scura? Ah, leggiti ‘Internazionale’ di questa settimana, c’è un articolo sulla depressione molto divertente!”, capisco che la sua mente viaggia su mille binari paralleli. La sensazione non è molto diversa quando lo seguo su un set fotografico: mentre studia l’inquadratura ha già in mente la successiva, ti dice come regolare la luce, nel giro di un minuto cambia tre obiettivi e, arrampicandosi sullo scaffale di una libreria (nella migliore delle ipotesi), ordina gentilmente al soggetto da fotografare quale posa assumere. Ogni suo scatto è un differente punto di vista sulle infinite sfaccettature della realtà. Per raccontare ogni “scatto” della sua vita non possono bastare poche migliaia di battute, è per questo che quello che leggerete di seguito è solo una minima parte di quel tuffo infinito.

Il “ballerino di Lautner”, all’occasione anche musicista nella Parigi degli anni Sessanta, dopo aver trascorso qualche anno in Italia, sbarca a New York e viene subito assorbito dalla Factory di Andy Warhol. In perfetta sintonia con la genialità del fondatore della Pop Art, collabora attivamente all’interno di quella che definirei “un’officina dell’avanguardia creativa di massa”. Lì il lavoro collettivo s’incontrava con un mondo che, irresistibilmente attratto, gli ruotava intorno quotidianamente. Come impedire ai più ricchi imprenditori del tempo, americani e non, d’improvvisarsi collezionisti d’arte di fronte alla rappresentazione di uno dei famosi barattoli di zuppa Campbell’s, o ad una grande tela con l’immagine di Marilyn Monroe riprodotta più volte, con quei forti e vivaci colori? Impresa impossibile e quindi ottimamente riuscita per gli artisti, visto che il tutto era anche condito da una vita mondana che trovava nella Factory il luogo ideale per fondere moda, arte, cultura e divertissement. Ad animarla ogni giorno non c’erano solo i creativi all’opera, ma una vasta gamma di persone, semplici curiosi, gente legata al mondo della finanza, aristocratici europei, Drag Queens, insomma una fauna vivace che quotidianamente partecipava a brunch consumati in un ambiente decisamente stravagante.

Bruneau, che non è un fotografo stanziale, sente però il bisogno di fare anche altro, e nel 1988 segue la campagna elettorale di Jesse Jackson, il secondo afroamericano che si presenta per diventare Presidente degli Stati Uniti. Come prevedibile, vince l’altro candidato, il democratico Dukakis, più votato dai bianchi, e Jackson, che si era sempre impegnato nella difesa dei più deboli, torna ad occuparsi di diritti civili.

Il lavoro successivo si riallaccia in qualche modo all’esperienza della Factory. Si tratta infatti di un reportage sul Chelsea Hotel di New York, albergo atipico in quanto considerato in primis come centro di attività artistica e bohemien, nonché importantissima sede di un grande patrimonio storico e culturale. Qui si trovano opere d’arte create da molti degli artisti che lo hanno semplicemente visitato o che vi hanno trascorso dei lunghi soggiorni, tra cui Bob Dylan, Janis Joplin, Patti Smith e Sid Vicious.

L’esperienza americana del fotografo non si ferma. La sua fantasia, già stimolata in passato dal film di Tavernier, continua i suoi voli pindarici seguendo le orme del Blues lungo il Mississippi. Egli trascorre circa due mesi, partendo da New Orleans, città tempio del jazz delle origini, lungo un flusso continuo di immagini, colori e musica. In cammino lungo le rive della storia, ascoltando la voce dell’America nera, ruba con la sua pellicola la natura religiosa ed esistenziale che rispecchia perfettamente il quadro sociale dell’epoca.

Ma la sua curiosità e la sua necessità di scoperta lo riportano in Italia, dove, insieme alla giornalista Lucia Annunziata, decide di partire per Israele. In pieno conflitto arabo-israeliano, s’infiltra in un gruppo di estrema destra, per fermare con il suo obiettivo tutte le sanguinarie azioni di rappresaglia che i soldati facevano in mercati, moschee, luoghi pubblici o privati ai danni dei palestinesi. Il suo lavoro da fotoreporter a quel punto accelera, portandolo prima in Kurdistan nei movimenti del PKK e poi a Tirana nel 1990, rendendolo testimone di repressioni violente e drammatiche.

L’eclettica attività dell’artista ritrova un po’ di quiete nel mondo dell’arte, esattamente in Russia. Dopo aver fatto un reportage sull’Armata Rossa, infatti, si dedica approfonditamente all’innovativo fermento pittorico dei primi anni Novanta, fotografando, tra gli altri, il concettualista Prigov, “il demone non meschino”.

Dopo aver trascorso qualche anno in Italia ed aver avuto una relazione con la principessa Giovanna Pignatelli (relazione coronata dalla nascita del figlio Thierry), nel 1997 è di nuovo in viaggio oltreoceano: obiettivo Texas. Stavolta le immagini che immortalerà saranno quelle dei condannati nel braccio della morte della prigione di Huntsville. Qui i detenuti vivono una sola ora di ricreazione al giorno, da soli, senza alcun contatto umano con gli altri reclusi. Le restanti ore le passano chiusi nelle loro celle in attesa dell’esecuzione, che può avvenire anche dopo molti anni. Le foto più famose sono quelle di Henry Lee Lucas, il leggendario serial killer statunitense, accusato di oltre duecento omicidi, la cui storia ancora oggi rimane un mistero.

L’ultimo aneddoto che mi concedo di raccontare riguarda il suo reportage messicano “I sotterranei della vergogna” sui niños de la calle, bambini nati in edifici abbandonati e cresciuti in mezzo alla strada, che fanno uso di droghe e sopravvivono chiedendo l’elemosina o prostituendosi. A questi bambini non è bastata qualche moneta per farsi fotografare. Anzi, l’hanno tenuto sotto sequestro diverse ore in una delle loro tane, i cui ingressi sono costituiti da tombini in mezzo a dei vicoli. L’ardito fotografo però se l’è cavata anche questa volta e dopo una lunga contrattazione è tornato a casa sano, salvo e con il rullino pieno.

Ci vorrebbe un biografo esperto per poter riportare l’odissea di quest’uomo che, dopo una vita da giramondo, ha finalmente trovato il suo nido, insieme alla adorata compagna Adriana Faranda alla quale, oltre che sentimentalmente, è legato anche professionalmente. Certo è che questo articolo è solo un assaggio di Gerald Bruneau, che oggi vive fotografando personaggi della politica, dello spettacolo, dello sport e della cultura, pubblicati da “Washington Post”, “Time”, “Newsweek”, “Le Figaro”, “Le Monde”, “Vanity Fair”, “Magazine” del “Corriere della Sera” e questa volta da“the trip”.

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