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di Marianna Kuvvet

Quella fra moda e corpo umano è forse una delle più ovvie e indissolubili delle relazioni. Parlare della sua esistenza sarebbe come intavolare una discussione sulla presenza o meno di un legame fra musica e udito, ossia una perdita di tempo, una banalità. Ma se vogliamo definire, per quanto possibile, il ruolo, o meglio i numerosi ruoli che la moda svolge in relazione al corpo umano, e in quanti e quali modi si rapporta a questo, è tutto un altro discorso. Sicuramente l’abbellimento, il miglioramento estetico è il fine ultimo, ma questo concetto è tanto vasto quanto soggettivo. I designer coprono, eventualmente scoprono, modificano o accentuano le forme, celebrano la femminilità o confondono e mescolano i generi.

Uno fra i tanti, Azzedine Alaia celebra l’armonia del corpo quale fondamento della bellezza, manipolando le forme femminili, sfruttando i suoi studi in scultura per rendere il fisico di una donna un’opera d’arte da ammirare. In questa visione il corpo è indiscusso protagonista, in una società in cui si è sempre più coscienti del modo in cui si appare.

Opposta, ma a mio modesto parere più interessante, la filosofia del giapponese Yohji Yamamoto, filosofia che celebra “l’aria fra il corpo e il tessuto”. Yamamoto irrompe nel mondo della moda negli anni ’80, periodo dominato dalla classe e dall’eleganza dello chic parigino. Provoca una rottura e un’inversione di marcia in quella che era stata fino ad allora la bellezza femminile nell’immaginario comune affermando che “la perfezione è brutta”. Nientedimeno. L’obiettivo del designer è contraddittorio e, almeno apparentemente, quasi utopico: rendere il corpo incorporeo, costruire un abito prescindendo dall’aspetto dell’uomo e della donna, palesando la loro essenza e le loro esperienze di vita. Non è più l’abito ad agire sul corpo umano per modificarlo a piacimento dello stilista, bensì il corpo stesso che definisce il carattere dell’abito, agendo attivamente su di esso. Si trascende non solo il genere ma il corpo in assoluto, si utilizzano nuove dimensioni e nuovi volumi.

L’estetica di Yamamoto è una sorta di bricolage postmoderno composto da influenze occidentali e antiche tradizioni giapponesi, l’eleganza dei kimoni e la precisione degli origami si sposa in qualche modo con la funzionalità pretesa dalla società contemporanea. Sono i drappeggi, le sovrapposizioni e le plissettature che celano le forme comunemente considerate espressione della femminilità e che vanno a scomporre e ridefinire il concetto della stessa. Si utilizzano tessuti quali il lino e il rayon, scelti esplicitamente per la loro superficie irregolare, sinonimo di imperfezioni e cicatrici che vanno ad intaccare la perfezione che per assurdo il designer rifugge, così come orli sfilacciati ed increspature. Si parla di moda che veste e cela l’esteriorità per evidenziare l’interiorità.

A differenza di Alaia ma anche di tanti altri sostenitori della bellezza e dell’armonia estetica del corpo, Yamamoto non crede ad esso, non si fida: “Per me il corpo è nulla. Muta senza tregua. Invecchia in ogni istante, non ci si può affidare ad esso perché non si può controllare il tempo”.

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