foto di Vincenzo Floramo | floramo.it
Quando ho conosciuto Alberto, dopo le presentazioni di ritogli ho mostrato il reportage che avremmo stampato su questo numero dedicato alla Thailandia. Ho aperto la prima pagina del servizio e lui ha sgranato gli occhi, si è alzato la maglietta e con orgoglio mi ha mostrato il disegno tatuato sulla sua pelle, lo stesso che vedete a pagina 33.
«La tigre ha la funzione di proteggerti dalle ferite in battaglia, è il simbolo dei militari e dei combattenti- mi spiega Alberto – è simbolo di autorità, forza, determinazione». Tutte caratteristiche, penso, che un combattente Muay Thai deve avere. E lui di questa arte marziale millenaria ne sa qualcosa.
Campione italiano nel 2004 di Mae Mai Muay Thai, Alberto Mecarolo ha preso il certificato di Maestro di Muay Thai presso l’Association Institute of Thai Martial Arts di Bangkok e il diploma di allenatore I.A.M.T.F. (International Amateur Muay Thai Federation). Per ottenere tali cariche si è preparato duramente per anni facendo avanti e indietro con la Thailandia.
«Ho avuto la fortuna di allenarmi presso i più famosi campi thailandesi (i kay muay) per tenere sempre aggiornate le tecniche e le metodiche di combattimento». Perché l’arte del Muay Thai non ha dei dogmi fissati nel tempo: pur essendo un’antichissima disciplina, ha continuato a svilupparsi fino ai nostri giorni e le sue origini sono indissolubilmente legate a quelle del vecchio Siam, alla sua storia e alle sue leggende. Prima di essere lo sport nazionale della Thailandia però, Il Muay Thai è la passione di tutti i thailandesi che, come tutti coloro che credono fermamente in una disciplina, la conoscono nel profondo. Come Alberto che non è thailandese ma è un ex combattente, un allenatore, un guerriero e che prima di fare qualsiasi accenno alla tecnica vera e propria ci tiene a raccontarmi le origini della sua arte.
«Il Muay Thai nasce in un’era in cui il guerriero veniva considerato baluardo e fondamento della civiltà e della libertà di un popolo. Molti definiscono tutt’ora la Muay Thai Arte dei re in quanto dagli stessi sovrani giungevano segnali di grande favore verso le forme locali di lotta. Nel 1350, per non perdere una tradizione tramandata solo oralmente, il principe Uthong Ayudhaya impose il manuale di Muay Thai noto come Chuppasart: convocò i più grandi maestri dell’epoca per codificare e registrare le tecniche di lotta per secoli utilizzate dai guerriglieri Thai.
Nel XVI secolo, la svolta. Grazie a Naresuan, conosciuto come Principe Nero, l’arte della guerra Thai che prevedeva l’uso di armi (la Krabi Krabong) viene nettamente distinta dalla Muay Thai. Naresuan venne fatto prigioniero dai birmani dopo la caduta di Ayuttahya, per otto anni non si dedicò ad altro se non all’arte della guerra e del combattimento arrivando alla conclusione che l’unica arma a disposizione deve essere lo stesso corpo del guerriero. Grazie al Principe Nero si diffuse la lotta a mani nude che, nella pratica, significa combattere con pugni, calci, gomitate e ginocchiate. Per questo i Thailandesi furono soprannominati la razza dalle otto braccia».
Alberto continua a raccontarmi del dio Scimmia, dello studio che per molti secoli i maestri siamesi hanno effettuato cercando di replicare le forme di lotta ispirate alle tecniche narrate nel Ramakian, l’antico poema epico ispirato a quello indiano Rāmāyaṇa, del quale rimangono solo tre copie dopo la distruzione di Ayuttahaya nel 1767. Mi racconta del mongkok, la corona di corda benedetta in sette monasteri buddhisti e posta dal maestro intorno al capo dell’atleta per ricordare all’allievo che egli combatte rappresentando sia il maestro sia la scuola. Mi descrive la ram muay, l’antica danza guerriera che si esegue prima di un combattimento: una sequenza di movimenti lenti e aggraziati eseguiti spostandosi sul ring verso i quattro angoli del quadrato. Nulla di spirituale o religioso: la pratica di questo rituale risale all’epoca degli incontri senza ring, dove ruotare intorno al quadrato significava tastare il terreno prima di uno scontro per individuare buche, sassi o altri ostacoli.
«Dal punto di vista tecnico – continua Alberto – i combattimenti ai tempi del Principe Nero, così come nelle epoche successive fino ai primi del Novecento, erano profondamente diversi da quelli che si effettuano attualmente. I guantoni da boxe, ad esempio, vengono introdotti dopo il 1929. Prima le mani erano bendate con delle corde che, in alcuni combattimenti rituali, venivano spalmate di resina e ricoperte di frammenti di vetro tritato per ottenere effetti ancora più micidiali. Gli incontri erano disputati da atleti di peso anche molto diverso, sulla terra nuda e duravano senza interruzioni fino al ko finale. È stata una disciplina scolastica fino al 1920. Bandita poi dalle scuole, nel 1930 il governo ha imposto regole simili a quelle del pugilato occidentale, introducendo l’uso del ring, dei guantoni e della suddivisione dei combattenti in categorie di peso». I tempi cambiamo e le antiche usanze e costumi di un popolo sono le prime a essere trasformate in puro business, molto spesso a scapito dei più giovani. Nelle zone rurali, i figli delle famiglie poverissime vengono mandati a combattere sul ring da piccolissimi, anche a cinque anni. I combattimenti portano soldi, come le scommesse: nei bar di Bangkok si vedono spesso le mamme arrivare con i figli in divisa scolastica e trascinarli sul ring, dopo averli fatti rapidamente cambiare. Il giro di scommesse è enorme e sfama parecchie famiglie che vivono in periferia. Oggi il fenomeno è ancora più diffuso ma molto spesso si assiste a delle vere e proprie sceneggiate, farse organizzate apposta per i turisti che prima applaudono ai pugni sferrati dai ragazzini e poi lasciano loro laute mance come ringraziamento per “lo spettacolo” appena visto.
Nel 2012 è uscito il documentario Buffalo Girls, girato da Todd Kellstein, che racconta la storia di due bambine di cinque anni che salgono sul ring ogni giorno per mantenere le proprie famiglie. Spesso un affitto mensile in Thailandia equivale a un unico incontro e a volte questi bambini riescono a portare a casa più di quello che un contadino o un operaio guadagni in un mese. Per le giovani protagoniste del documentario la Muay Thai è un’occasione per aiutare i loro genitori, e un mezzo per sfuggire alla povertà in alternativa al commercio del sesso.
Ma, come sempre, non si può fare di tutta l’erba un fascio. Alberto mi parla del suo maestro thailandese, con cui si è allenato per lungo tempo. Con lui c’era sempre il figlio di otto anni, che saliva sul ring, che si allenava duramente per diventare un vero guerriero della Muay Boran. «Suo padre, il maestro, orgoglioso di suo figlio, gli stringeva il prajaet, il bracciale di corda avvolto all’altezza del bicipite e contenente una reliquia o oggetti e bigliettini portafortuna e aspettava che il piccolo guerriero, una volta salito sul ring, prima di cominciare a combattere, facesse il Wai Khruu, il saluto, l’omaggio al maestro: con i guantoni vicino al viso si inchina tre volte, recitando la breve preghiera per onorare il maestro, il campo di appartenenza e i combattenti che lo hanno preceduto». Questi sono i fondamenti che un combattente Muay Thai deve rispettare prima di sferrare qualsiasi colpo. Altrimenti sarebbe solo fuffa, solo sport, solo business.
«Il Lookprabat muay thai camp è situato in una piccola cittadina chiamata Pra Phuttabat nella provincia di Saraburi, una delle province centrali della Thailandia, che dista cento chilometri a Nord di Bangkok. È il luogo perfetto per trovare tranquillità e concentrazione, lontano dalle luci e dai ritmi frenetici della capitale e dai percorsi turistici. È uno degli ultimi campi rimasti che seguono la tradizione thailandese, molto lontano da quelli che si trovano a Pucket o Kosa Mui che oggi sono delle mere mete turistiche. Come da tradizione thailandese il campo è molto spartano e le sessioni di allenamento, una al mattino e una al pomeriggio, sono serrate ed estenuanti, ma la gentilezza e la disponibilità con la quale si viene accolti sembrano quasi in antitesi con la durezza dei combattimenti. L’unica attrazione del luogo è il Wat Phra Phutthabat Ratchworamahawihan, situato a Kuhn Khlon, a ventotto chilometri a Nord della città. È uno dei templi più importanti di tutta la Thailandia in quanto vi è conservata la grande impronta sacra di Buddha, lunga cinque piedi, larga ventuno pollici e profonda undici».
Per imparare l’antica arte del Muay Thai, se non avete la possibilità di recarvi sino al vecchio Siam, trovate Alberto in due palestre romane: la Gym Center Sporting Club (via Anastasio II, 342) e la KB Gym (Via Crescenzio, 21). Non vi farà combattere con le corde e i vetri frantumati ma imparerete una delle più antiche arti marziali mai esistite.