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di Maria Carla Gullotta

foto di Simone Tramonte

In aeroporto, in città, nelle spiagge,

nei ristorante e nei locali

il reggae è ovunque

“si va a spasso per città affollate

o per viottoli di campagna

e il reggae accompagna sempre i tuoi passi”

La prima cosa che colpisce chi arriva in Giamaica è la presenza di un’onnipresente colonna sonora. Il battito in levare del reggae accompagna le giornate e, soprattutto, le nottate di un’isola che ha conquistato uno spazio speciale nel cuore di chi ci è stato e nei sogni di chi vorrebbe salire sul primo aereo, proprio per scoprire la magia della sua musica. Si atterra e nel corridoio che porta agli sportelli dell’immigrazione suona una band che propone i successi del caro Bob Marley. Si passa la dogana e l’impiegata che controlla i bagagli porge un orecchio attento all’ultima hit sparata dalla radiolina sul bancone. Si esce nell’aria calda e umida dei tropici e si viene abbracciati dal fumo squisito dei mille polli che cuociono sulla brace nei bidoni lungo le strade, mentre un intrecciarsi di stazioni radio regala il primo assaggio di come sarà una vacanza diversa da tutte le altre. Voci, percussioni, grida dei dj si accavallano ad un volume altissimo.

Chi li ascolta continua a fare quello che deve ma un guizzo improvviso, un passo di ballo che non si può trattenere, scappa a parecchi. E non è certo una questione di età perché poderose vecchie signore possono lasciare improvvisamente i banchetti in cui vendono un po’ di tutto per lanciarsi nel loro pezzo preferito. Si procede nel traffico e ogni macchina, anche la più scassata, ha a bordo una radio-sound, corredata da lucette che si accendono tutte insieme con l’impazzare dei bassi. Si va a spasso per città affollate o per viottoli di campagna e la musica è sempre li che accompagna i tuoi passi.

Le serate del venerdì e del sabato sono un tutt’uno con le potenti torri dei sound system: un assemblaggio di consolle, casse, microfono e selecta incorporato. 50.000 watt sparati da ogni bar, pub e piazzetta annunciano che questa è l’ora della festa e la gente si raduna per bersi un rum e chiacchierare, aspettando il momento in cui la voglia di ballare ti prende e ti porta lontano. Lontano dai pensieri di una vita povera e difficile che va saggiamente accantonata per le ore del party time. E tutti si vestono eleganti, scintillanti, provocanti per essere al top. Una scia di profumi, parrucche colorate, vestiti stretch e tacchi altissimi per le ragazze, jeans all’ultima moda, magliette oversize da rapper, catene e anelli, e occhiali a specchio per i bad boys. Diceva Marley: ”Forget your troubles and dance”, e i giamaicani sono in effetti maestri dell’arte della dimenticanza. Le serate di dancehall catturano completamente chi, invece di restare impaurito da tanta potenza e dalla folla, decide di godersi la meraviglia del reggae, capace di unire vecchi e giovani, bianchi e neri, poveri e ricchi e famosi.

In Giamaica la musica è cambiata nel corso degli anni. Ha accelerato il ritmo per accompagnare una società che ormai non è solo contadina ma che ha raccolto nelle sue due maggiori città più di metà della popolazione tra ricche uptown e ghetti invivibili. Ma la Giamaica non ha dimenticato i tempi della schiavitù, la vergogna di una tratta che ha deportato intere popolazioni dall’Africa al Centro America, cancellando totalmente l’identità di chi viaggiando in catene ha perso il suo paese, la sua famiglia, la lingua, la cultura, la religione. Non c’è da stupirsi se a volte certe durezze emergono nel rapporto con chi non è stato considerato per generazioni un essere umano.

Oggi i giamaicani dipendono economicamente mani e piedi dagli USA e culturalmente da modelli che non gli appartengono. I ghetti di Kingston sono la personificazione dell’emarginazione e della totale solitudine in cui è lasciata la gente che ci vive. Non c’è lavoro, al posto della luce ci sono fili volanti attaccati di notte ai pali delle strade, strade dissestate, scuole con i tetti pericolanti. Realtà durissime da cui emergono improvvisamente luminosi talenti. La stragrande maggioranza degli artisti arriva dai ghetti e, dagli stessi quartieri, proviene il fantastico team di atleti che ha sbancato le ultime olimpiadi di Pechino. Si sono allenati senza scarpe, eppure hanno vinto non solo una medaglia d’oro ma il riconoscimento che una via d’uscita si può trovare.

La musica reggae ha sempre raccontato le storie dei “sufferers” (sofferenti) e le sue parole sono la cronaca quotidiana di una realtà troppo spesso ignorata da chi viene a godersi le belle spiagge e le fumatine illegali. E anche se il reggae delle ultime generazioni è diventato più martellante e aggressivo bisogna avere la pazienza di ascoltarne le parole. Sono testi bellissimi, coprono tutto lo spazio che va dall’impegno sociale al sesso pirotecnico. Lasciano poco all’immaginazione e raccontano molto bene chi sono i giamaicani. Su ritmi che fanno ballare si creano testi che fanno pensare, che attaccano la politica locale e la sua corruzione, che chiamano a gran voce il potere di Jah Rastafari, il Re dei Re, Imperatore di Etiopia, considerato dai rasta il nuovo Messia. Testi mistici di inusuale potenza carismatica segnalano che l’Africa non è stata totalmente dimenticata.

Il reggae canta a tutto tondo ed è per questo che la musica in Giamaica è il media più potente e ascoltato.

Sulle orme del reggae si può fare un lungo viaggio partendo da Kingston, la capitale. Molti ne temono la leggendaria violenza ma in realtà, se si usano poche intelligenti attenzioni, è un posto ultra divertente. Dal lunedì al lunedì è tutta una teoria di mega dance: il Passa Passa, il Weddy Weddy, il Dirty Friday, l’esclusivo Asylum, il Quad, i concerti al Mass Camp sono appuntamenti imperdibili per giamaicani e visitatori. Serate che continuano fino all’alba, scuole di danza in mezzo alla strada con i ballerini schierati in doppia fila. Alla terza nota tutti gli adolescenti hanno già imparato il nuovo passo e lo ballano con una maestria e una grazia sconosciute ai bianchi. E ancora gli studi di registrazione, dal vecchio e mitico King Tubby fino al tecnologico Penthouse. Spazi di creazione musicale ma anche punti di ritrovo dove, tra una birra e uno spliff, il visitatore è benvenuto se non mette i piedi sui cavetti della consolle. Davanti agli studi una folla di aspiranti cantanti prova a venderti la cassetta fatta in casa. Spesso non sono affatto male ma se uno di loro crede di avere incontrato un promoter in incognito, non molla la presa finche non è certo di essersi sbagliato.

E da Kingston si va fino a Negril, dove il Risky Business, il Jungle e Alfred organizzano concertini e concertoni. Molto spesso la mattina passano sulla spiaggia ragazzi con il megafono che pubblicizzano concerti e dance.

Imperdibile il Ruff Club di Port Antonio, un locale che ha quasi trent’anni ma non li dimostra, che ogni sabato mette in pista serate indimenticabili. La domenica l’apertura è anticipata per chi viene in gita da Kingston e Spanish Town. Pullman carichi di gente vanno a Winnifred Beach, dove si fermano per il picnic, per giocare a palla in acqua, scaldare gli animi con il sound sulla spiaggia e poi concludere la giornata in discoteca. Alle undici di sera l’autista avverte con insistenti clacsonate che è ora di tornare a casa.

I concerti sono per chi è fisicamente robusto, vanno avanti fino al mattino con line-up di quaranta artisti Tre canzoni a testa, il pubblico in delirio, fischietti e trombe, la folla ammassata sotto al palco che scambia battute e scherzi con i cantanti. Tutto intorno si allineano banchetti di pollo, zuppa, pesce e bibite nel grande cerchio che racchiude lo spettacolo. Molti si portano le sedia da casa, parecchi comprano dai venditori all’esterno dei pezzi di cartone. Si chiamano reggae bed e sono single, double o family. Servono a sedersi tra un cambio band e l’altro, servono ai bambini che tracollano a metà concerto e dormono tranquilli nel gran baccano. Il cantante più famoso si esibisce all’alba: “Sun is rising, music is rising!”, grida l’mc nel microfono. E tutti si scrollano di dosso l’umidità della notte e benedicono il giorno che sorge con una fenomenale ballata.

Dettagli di viaggio:

-Per la Giamaica non occorre visto, solo un passaporto valido sei mesi.

-Costo medio di un pasto in un ristorante: 12 euro.

-Costo medio di un pasto in strada: 4-5 euro.

-Non sono necessarie vaccinazioni né terapie antimalaria.

-Una guest house media è sui 60 euro a notte per camera doppia.

-I giamaicani sono cortesissimi e sempre pronti a darti una mano.

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