a cura di Claudia Bena
Il 7 settembre 1860 Napoli aspetta Garibaldi. Orfana del suo re, il quale ha preferito ritirarsi piuttosto che vedere il popolo combattere, è già pronta ad accogliere il rosso esercito dei Mille, mentre sarà restia a lasciarsi conquistare da Vittorio Emanuele II. Palazzo Reale prepara il suo balcone affinché tutti i napoletani possano ascoltare la voce del generale. Di fronte la chiesa di San Francesco di Paola, eretta da Ferdinando I per la restaurazione, sta a guardare. Ad aprirgli le braccia la stessa piazza nella quale i Borbone organizzavano la cuccagna, che tanto inorridì il marchese De Sade nel suo “Voyage d’Italie”. Perché questa città è un paradiso, ma non è certo per puristi. La sua non è una bellezza immediata, ma cresce di giorno in giorno, di vicolo in vicolo. “Questa è Napoli, dove i monumenti, ancora più che per sé stessi, valgono nel miscuglio della tradizione storica, dell’aneddotica, della vita locale” diceva Guido Piovene nel suo di Viaggio in Italia.
Quella che si trova davanti Garibaldi è la quinta città europea per popolazione, la più grande d’Italia, sede della prima università laica, ma nello stesso tempo così carica di tradizioni cattoliche.
Il sacro ed il profano che la avvolgono in un unico meraviglioso intreccio trascinano nella propria trama anche lui, l’ateo, dirigendolo alla cattedrale di San Gennaro per sapere benedetta la sua missione con lo scioglimento del sangue del santo. Qui si conclude l’impresa dei Mille. Quando il 7 novembre entra in città il futuro re d’Italia le camice rosse non ci sono più, una nazione si sta formando sui cadaveri dei patrioti che per lei hanno combattuto, mere pedine delle mire espansionistiche piemontesi. E qui inizia la questione meridionale, con i pregiudizi che si porta dal nord la futura classe dirigente ed il trasferimento del potere in Piemonte prima e a Roma dopo, passando per Firenze.
A Napoli si sente tutto, niente ti scivola addosso. La cosa più importante è guardarsi dal velo di retorica che appanna la vista a chi ancora non sa osservare. Scriveva Goethe nel 1787: “a Napoli non si vuole che vivere; si dimentica sé stessi e l’universo”. Un quarto di puro sangue napoletano mi basta per sentirmi così ogni volta che il mio treno si ferma alla stazione centrale.