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testo di Alessandra Valente

Quante volte, da piccoli, abbiamo provato la soddisfazione di ultimare un castello di sabbia sulla riva del mare e subito dopo la delusione di vederlo crollare sulle sue stesse fondamenta, rosicchiato da un’onda più lunga del solito? Ma non importava, si ricominciava da capo, in fondo quella delusione era il rischio da correre per potersi illudere di nuovo. Chi non ha almeno un ricordo dell’infanzia legato a questo momento? Le dita sulla sabbia come la matita sul foglio bianco. Il mare, gomma gigante. Nessun bambino avrebbe mai rinunciato ad un simile piacere.
ha fatto di quel gioco una delle sue più grandi passioni. Il quarantottenne statunitense, oltre che rivoluzionario chef e surfer entusiasta, è anche un esponente di punta della Sand Art.
Supporto artistico? Sabbia.
Strumenti? Bastoni di fortuna e rastrelli.
Soggetti? Figure geometriche matematicamente perfette e forme stilizzate di estrema precisione. Spirali, cerchi, triangoli ricamano la superficie, ma sono le proporzioni monumentali e la larghissima scala con cui vengono riprodotte a renderle impressionanti. Non ci si spiega come faccia Denevan a mantenere la prospettiva, senza alcuno strumento di misura, dal momento che le sue opere sono visibili nella loro interezza ad almeno centocinquanta metri d’altezza. Ed ecco le immense sconfinate spiagge della Northern California o i letti prosciugati dei laghi del Nevada trasformati in una gigantesca tela che ospita sorprendenti creazioni ad effetto finché vento, piogge e maree non decidono che la mostra è finita. Un’attività che ha del poetico: è un manifesto del valore tanto nobile quanto effimero della bellezza e dell’arte, in generale.

Dopo secoli passati a vantare la funzione eternatrice dell’arte, Denevan ci prende in contropiede col carattere passeggero delle sue opere. Come dire: dall’arte come strumento di immortalità all’arte come creazione corruttibile, fragile, precaria, votata ai capricci della natura. Ai più, l’impresa di Sandman – come viene soprannominato – ha un che di folle: perché investire tempo ed energie per una creazione provvisoria, ergo inutile?

Tra l’altro, ogni quadro a cielo aperto gli costa uno sforzo titanico. Il processo creativo comincia dalla scelta delle location: Jim cammina per chilometri e chilometri, durante il tragitto sceglie tra tanti il bastone o il ramo più adatto, portandoselo dietro come un amico fedele, e intanto osserva il paesaggio, ascolta il rumore dell’oceano, e, una volta entrato in sintonia con il posto, si ferma a regalargli una dedica. Personifica il terreno, gli dà la parola prima che possa tornare di nuovo vergine. È una continua sinergia tra uomo e natura: alla fine del processo, certo, la natura ristabilirà le gerarchie, ma l’uomo le avrà recapitato il suo messaggio.
Il più colossale artwork che la storia ricordi è stato realizzato nel 2009 nel Black Rock Desert del Nevada: centinaia di cerchi concentrici, di diverse dimensioni, un diametro totale di oltre 13 km. Tempo di messa a punto del graffito: due anni. Un camion, aiutato da algoritmi e GPS, ha solcato il deserto con pesanti catene fino a nove metri di profondità, così da rendere l’opera visibile persino dagli aerei. Ancora una volta, trattasi di temporary art.
Un altro disegno ha significato per Denevan trenta chilometri – all’incirca sette ore – di marcia. E pensare che basterebbe un’onda a cancellare tutto. Ma, in fondo, tutto torna.
Denevan, prima di essere un artista, è innanzitutto un surfer. Così descrive l’epifania del primo disegno: “Una sera, scesi in spiaggia per una passeggiata. La bassa marea aveva risucchiato via il mare e lasciato chilometri di spiaggia liberi. Ho ceduto all’impulso di lasciare una traccia nella sabbia con le dita. Così, ho disegnato un pesce di una ventina di metri. Ho fatto un passo indietro e sono rimasto a guardarlo, compiaciuto. Poi, ho disegnato un sacco di pesci, dovunque, sulla spiaggia. Ho camminato su per la scogliera e ho ammirato il disegno da lassù: era bellissimo, in quella luce della sera. E mi sono detto: dovresti farlo più spesso”.
L’illuminazione gli è venuta proprio dal surf: la visione della spiaggia come una enorme tela vuota, l’interesse morboso ai movimenti delle onde. La creazione è tanto importante quanto la distruzione. L’azione casuale degli elementi naturali costringe a dare importanza all’immediato, al momento presente, a vivere l’arte per l’arte. Quando la traccia viene cancellata, non se ne esce col cuore spezzato, ma con un sollievo che è catartico. Le emozioni che sono state liberate nel disegno, sono ritornate alla terra. Ora, si ricomincia.

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Redazione the trip
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