testo e foto di Carlotta Caroli
Mongu – È come un tempio, il loro tempio. Il luogo per eccellenza (dopo l’armadio e la stanza da bagno) in cui le donne riescono a dare vita ad alchimie di bellezza e bontà. È il ponte dove l’attesa universale si concretizza nella pazienza mistica, dove la magia rosa fa sbocciare amori deliziosi e passioni succulente, stimolando anima e corpo. Perché lì la forza di gravità lascia il posto alla chimica della lievitazione. E se il tempo finisce dove comincia la cucina, vuol dire che quella è, se non proprio l’essenza della femminilità, almeno la pura e cruda, deliziosa verità. Zenzero e zafferano e cumino. Passione, delizia, croce: viaggi sensoriali da fuso orario a fuso orario, peccati universali che combaciano, cosicché nessuno prevarichi sugli altri. E se la donna di Neanderthal passava la giornata a masticare il cibo crudo fin quando un giorno, per puro caso, non fece cadere un pezzo di bisonte sul fuoco realizzando lentamente la svolta che quel gesto inavvertito aveva creato, la donna africana usa la cucina come luogo per svelare i segreti più inconfessabili, i segreti delle lenzuola.
Sarà per tutto il misticismo che circonda il rituale della preparazione del cibo in Zambia – dove la cucina tradizionale è un fuoco all’aperto e il pasto un piatto di polenta da mangiare con le mani dopo che, con le stesse, la polenta è stata adeguatamente lavorata – che il “Kitchen party” diventa il momento più traboccante di significato nella vita di ogni donna “che si rispetti” (cioè una donna sposata). E quando si parla di spose zambiane meglio rimuovere l’idea della gioia incontenibile delle spose occidentali che sorridono e si pavoneggiano e danzano a testa alta, pancia in dentro e petto in fuori.
No. Le spose zambiane sono tristi, perché sposarsi significa sì avere un marito, ma anche lasciare la famiglia. E sorridere, danzare, piroettare tra le pieghe del vestito più bello non è segno di rispetto per questo tipo di separazione. E allora la bella sposa siede scalza su un materasso, affiancata dalle due testimoni che le fanno coraggio. E non guarda in faccia le altre donne, non può commentare sottovoce i vestiti delle invitate, non può addentare un’ala di pollo né può commuoversi dell’atteso forno a microonde e della padella formato famiglia. Non è semplice essere una sposa zambiana nel giorno del matrimonio. Ma è affascinante esserne spettatori. Tuttavia è bene sapere a cosa si va incontro quando si è invitati ad un “Kitchen party”, altrimenti si può credere di essersi imbattuti in una situazione in cui gli interessi di qualcuno sono stati demoliti in favore degli interessi di qualcun altro. Quando poi capisci il meccanismo, fai parte della festa, del raccoglimento, del piacere e della compassione, cioè il sentimento principale del “Kitchen party”. Che – non lo avevo ancora detto – è la festa della sposa e per la sposa, che segue il matrimonio in chiesa e precede il ricevimento serale. L’equivalente per gli uomini – almeno nella provincia occidentale e per i maschi appartenenti a certe tribù – è leggermente più complicato: i giovani di età compresa tra i dieci e i quindici anni vengono allontanati dalla famiglia per un periodo di sei mesi, periodo che passeranno nelle fitte foreste zambiane in compagnia di alcuni anziani che li istruiranno su tutto quello che sarà loro utile sapere, comprese delucidazioni sulla vita di coppia. Se i ragazzi sopravvivono ai sei mesi selvatici, non c’è niente di pratico che debbano ancora imparare. È allora che avviene il passaggio da sbarbatelli anonimi a uomini veri e potenziali mariti.
Tornando al “Kitchen party”, si chiama così perché, mettendo un attimo da parte il concetto di parità dei sessi, è in cucina che la donna passa la maggior parte del tempo, o almeno secondo alcuni è lì che dovrebbe passarlo. Non solo: i regali che le invitate consegnano sono rigorosamente oggetti per la cucina. Via libera, dunque, a piatti, bicchieri, coltelli giapponesi, tovaglie, pentole, sedie e credenze, purché il tutto sia del colore indicato nel biglietto di invito. Se l’invito prevede il rosso, allora un oggetto bianco sarà offensivo. Ciò che conta di più, comunque, è la danza che segue la consegna del regalo alla sposa, la quale non ha ancora mai alzato lo sguardo da terra. Una alla volta tutte le partecipanti si alzano, si avvicinano alla sposa, le consegnano il dono, le spiegano il perché abbiano scelto proprio quello, le suggeriscono come usarlo e poi le svelano qualcosa di più con la loro danza. Sensuale, sinuosa, felina, morbida, una danza che segue il ritmo delle canzoni lozio delle preghiere vorticose dall’accento mistico e purificatore che le altre donne intonano. Una danza individuale che mima l’atto sessuale, che spiega come comportarsi quella notte quando il letto dovrà essere diviso in due. E le danze raccontano anche il carattere di ognuna delle donne, la sua malizia, la timidezza, l’irriverenza, l’euforia, la stravaganza, l’inibizione, la spensieratezza. Si danza. Ci si guarda. Ci si confronta. Con la danza che racconta, suggerisce, consiglia. Perché quella danza in cucina, accogliente come un sacco a pelo e calda come un bacio, sia essa il frutto della saggezza o dell’inesperienza, è il punto fermo di una cultura, la ricchezza del suo sapere, l’opportunità di dire la propria.
E di farlo per una volta senza correre il rischio di essere fraintesi.