di Alessandro Gaston | foto di Monise Nicodemos
È notte. Da poco meno di un’ora io e mia moglie Monise abbiamo messo piede in Vietnam, ad Hanoi per la precisione, la capitale. Un taxi ci sta portando al nostro albergo, nel quartiere vecchio della città. Un dedalo di stradine contornate da edifici in stile coloniale francese alternati ad edifici moderni, colorati quanto malandati, ma soprattutto ombreggiati da una miriade di fili elettrici che si snodano in tutte le direzione senza un’apparente logicità. La città è deserta, il silenzio è altrettanto surreale, rotto solo dal gracchiare di qualche apparecchio televisivo che si può udire attraverso le finestre lasciate aperte in questa notte afosa. L’atmosfera ci induce nella quanto mai errata considerazione: “C’è una calma quasi zen in questo posto”.
Ma il mattino seguente, quel luogo pacifico e silenzioso che avevamo intravisto dal finestrino di un taxi è scomparso. L’uscita di buon ora dall’albergo ci catapulta nell’immenso caos vietnamita. La città si rivela un formicaio di motociclette, carretti, risciò, macchine e qualsiasi altro mezzo di locomozione immaginabile, basta che abbia un motore a trascinarlo e un clacson per segnalarlo.
In Vietnam dopo poche ore di attenta osservazione, si scoprono le regole base della guida locale. Regole che ruotano tutte intorno alla componente principale della viabilità, il clacson. È molto semplice. Il clacson deve essere suonato – due volte – ogniqualvolta si sorpassa o si venga sorpassati da un altro veicolo, sia esso a destra, sia esso a sinistra, sia che ci si trovi in movimento, sia che ci si trovi in sosta al margine della strada. Ora calcolando che le statistiche nazionali parlano di ventidue milioni di motocicli su strada, è facile comprendere il continuo e assordante sottofondo di strombazzamenti che ti accompagna in un moto perpetuo, senza soste. Un mantra che in poco tempo riesce ad ipnotizzarti, fino a spingerti ad affittare una moto e unirti al concerto collettivo diventando parte integrante di questa enorme orchestra popolare (non per niente è un Paese comunista, no?).
Probabilmente nessuna rinomata guida lo segnalerà mai, ma tra le cinque cose da fare assolutamente in Vietnam c’è proprio il perdersi in moto nel caos metropolitano. Senza meta. Basta allacciarsi il casco, fare un bel respiro ed immettersi in carreggiata. Intorno a voi si schiuderà un mondo straordinario che si muove su due o tre ruote. Famiglie intere stipate sotto la cappottina di un risciò che vengono trascinate da un esile conducente tutto ossa e muscoli, moto-venditori ambulanti di polli, pesci rossi, spezie, verdure e incredibilmente scrofe, chiuse in resistenti gabbie di bambù intrecciato e legate lateralmente alle moto, a sembrar quasi parte integrante di un motore primitivo, o postmoderno a seconda dei punti di vista.
Una volta che ci si congeda dall’orchestra e si mette piede sul marciapiede, si entra a contatto con un’altra abitudine consolidata nella cultura vietnamita: il cibarsi a qualsiasi ora del giorno. Il fiume di centauri – nel senso di mezzi uomini e mezzi Honda – è accompagnato da argini di ristorantini e venditori ambulanti che con i loro carretti soddisfano la fame atavica dei cittadini. Ogni punto di ristoro è articolato in un pentolone ribollente, un contorno di piccoli contenitori di spezie, salse, uova e peperoncini, uno o due tavolini alti trenta centimetri accompagnati da un nugolo di sedie o sgabelli giocattolo su cui accucciarsi e godersi il propri pho, la tradizionale zuppa di noodle, adatta a tutte le ore del giorno. Sublime.
I pasti possono essere perfezionati da un buon caffè vietnamita, il celebre Kopi Luwak. La provenienza di questi ricercati, quanto costosi, chicchi è di quelle che non ci si aspetta, un po’ come il finale di Twin Peaks. Un curioso mammifero, lo zibetto, è solito infatti nutrirsi di bacche di caffè che, una volta ingerite e parzialmente digerite, vengono rilasciate ad uso e consumo dell’homo sapiens, da sempre attratto dalla dietrologia, in tutte le sue forme. Una tazzina di Kopi Luwak costa all’incirca quanto una ventina di caffè non defecati da nessuno, insomma è il caffè più costoso del mondo. Inutile dire che si potrebbe parlare per giorni e giorni di questo prodotto alimentare, cercando risposte a domande che sorgono naturalmente: “Che cosa aveva in mente la prima persona che ha intenzionalmente raccolto feci di zibetto, per poi tostarle e farne una bevanda?”, “Lo zibetto è consapevole del potere economico che si cela in lui?”, ma sarebbe un mero esercizio di stile.
A questo punto il lettore potrebbe chiedersi se esiste un angolo di pace ad Hanoi. Certo. Il meritato riposo per le orecchie e le mascelle lo si trova ad ovest del quartiere vecchio, nell’imponente mausoleo dove è custodita la salma del grande leader e combattente Ho Chi Minh. Il mausoleo, che si ispira chiaramente al suo simile moscovita, è un blocco di granito grigio che riprende il rigore e la semplicità di colui che viene comunemente indicato come lo “Zio Ho”, ancora oggi la figura paterna di riferimento per tutti i vietnamiti. Di rigore un copricapo o un ombrellino, non tanto per rispetto alla salma o per un vezzo british, quanto per sopravvivere nella lunghissima coda che si snoda nel parco intorno al mausoleo. L’attesa per entrare dura giusto il tempo per ripensare accuratamente a tutta la propria vita.
La cosa che attira maggiormente la nostra attenzione è che la stragrande maggioranza di persone in fila con noi è rigorosamente vietnamita. Non solo scolaresche in gita, ma anche persone anziane, forse alla prima escursione fuori dal proprio villaggio, per visitare colui che ha permesso ad ogni vietnamita di essere orgoglioso e camminare a testa alta in mezzo ai francesi, ai giapponesi e agli americani che nel tempo si sono succeduti facendo di questo Paese uno dei più terribili teatri di guerra della storia. Oltre tre milioni di tonnellate di bombe convenzionali, accompagnate da quattrocentomila bombe al napalm, settantadue milioni di litri di erbicidi e defolianti chimici, oltre a centinaia di migliaia di bombe a frantumazione e mine antiuomo. Numeri terrificanti che è possibile leggere non solo nei libri di storia, ma anche negli occhi e nelle espressioni di ogni singolo vietnamita. Numeri in grado di modificare irrimediabilmente la conformazione e la morfologia stessa del Paese.
Prima di entrare nel Mausoleo ci si spoglia finalmente delle borse, delle macchine fotografiche, ma anche dei clacson e degli strilli dei venditori ambulanti, e ci si immerge nel silenzio più assoluto, in un ambiente buio e freddo che ti rigenera dalle temperature cocenti che si registrano esternamente. Approfittatene al massimo, anche perché imponenti guardie in impeccabili uniformi militari vi costringeranno a tenere il passo ed uscire in una manciata di secondi, dove ormai sapete cosa vi aspetta.