testo e foto di Alexandra Rosati
La prima tappa del mio viaggio in Siria è stata la richiesta del visto. Strana sensazione chiedere il permesso per entrare in un paese che non è il tuo. Per chi ama viaggiare, un ostacolo psicologico da superare, il primo segnale che il paese non ti sta dando il benvenuto nel modo più convenzionale del termine. La sensazione di ospite indesiderato dura fino all’arrivo in aeroporto, dove oltre ai documenti devi presentare un modulo accuratamente compilato con le motivazioni del viaggio, il luogo e la durata della permanenza. Parlano un idioma completamente differente dal tuo, scritto con altri caratteri e dal suono ruvido. Alla dogana, i poliziotti confabulano, il loro sguardo è sfuggente, si concentra sulle informazioni da inserire nel database: sputano per terra con la disinvoltura di un calciatore in campo, e congedano rapidi con la semplice restituzione dei passaporti. Dopo il ritiro dei bagagli senti finalmente di essere arrivato e il passo accelera spontaneamente verso l’uscita. Mi guardo intorno, mi sento osservata, più dalle donne che dagli uomini, ma appena il nostro amico siriano si materializza davanti a noi ho l’assurda sensazione di essere a casa. Arriviamo in albergo per l’ora di cena, stanchi e affamati. Salutiamo l’amico che deve rientrare a casa con la fidanzata italiana e prenotiamo un ristorante da lui consigliatoci. Il centro di Damasco è abbastanza piccolo da permetterci una passeggiata e, una volta usciti dai vicoli bui, ci ritroviamo nella movida damascena. Non è facile orientarsi, ci rendiamo conto che le informazioni del concierge sono inesatte, e cominciamo a chiedere. Chi non sa rispondere non si rassegna, sbracciandosi e urlando chiede ad un passante all’altro lato della strada, ferma le macchine, o entra in uno dei negozietti ancora aperti sulla via del Suq. Dopo aver fatto avanti e indietro sulla stessa strada per mezzora senza trovare la fatidica traversa, arriviamo in una piazzetta con dei poliziotti accanto alle moto. Pensando di aver risolto il problema, chiediamo a loro. La scena si ripete: urla rivolte a destra e a manca finché non arriva un giovane universitario, che con gentilezza disarmante ci dice, in inglese, che conosce il ristorante, e si offre di accompagnarci. Così, dopo un’ora e con una fame da lupi, la nostra scorta, chiacchierando amabilmente, ci lascia davanti all’ingresso del locale. Peccato fosse quello sbagliato.
Il Suq di Damasco è labirintico e disorientante, come tutta la città vecchia e i suoi quartieri millenari. Ti risucchia in un vortice di colori, odori, sapori, con un caos di persone che fanno acquisti mentre taxi e camioncini vanno avanti a colpi di clacson. Ma il mercato non è fatto solo di spezie, profumi, oro, tessuti e squisite cibarie, e seppur storditi dal trionfo dei sensi, anche l’occhio trova la sua parte. In ogni angolo ci sono affascinanti testimonianze storiche e architettoniche, come l’antico ostello per viaggiatori, dove la fontana attorno alla quale venivano lasciati i cavalli, con il suo altissimo getto, è il centro di un armonico gioco di linee e archi. Dopo una breve sosta nel bar più antico della città, tra bicchieri di the caldo e aromi di narghilé, raggiungiamo la Moschea degli Omayyadi. Per entrare, le donne devono indossare un lungo soprabito con cappuccio, ognuno deve levarsi le scarpe. All’interno, da una parte pregano gli uomini, dall’altra le donne: a delimitare gli spazi lunghe catene. Ai turisti è permesso aggirarsi liberamente. All’inizio mi sentivo un’intrusa che profanava un luogo di preghiera, dopo poco mi sono accorta che le persone del luogo parlavano al cellulare, mandavano sms o conversavano a voce alta. Così ho tirato fuori la macchina fotografica e ho cominciato a immortalare tutto ciò che attirava la mia attenzione, in particolar modo un folto gruppo di donne che, ammucchiate contro le vetrate di un piccolo edificio circondato da colonne, facevano atto di contrizione. Usciti dalla Moschea, la religione ti segue ad ogni passo: nei burqa, nelle preghiere che all’alba, a mezzogiorno e al tramonto rimbombano nella città, nei minareti che incontri, negli sguardi che gli uomini ti rivolgono se sorseggi bevande alcoliche. Le donne vivono un’evidente condizione di diversità, anche se non tutte costrette in abiti tradizionali. Se osservi l’architettura delle case puoi notare strane ‘sporgenze’ sostenute da travi di legno, con piccole finestre dalle quali un tempo, alle donne chiuse in casa, era permesso guardare fuori senza essere viste.
Ad Aleppo si respira ancora l’aria dell’antico, prospero, crocevia lungo la Via della Seta, che nonostante le moderne contaminazioni urbanistiche fa parte dei siti ‘Patrimonio dell’Umanità’ dell’UNESCO. Come Damasco, è una delle città abitate da più tempo in modo continuativo, le sue antichità convivono con le nuove arterie stradali dandole l’aspetto di una metropoli. La mescolanza del profumo dei suoi famosi saponi all’olio d’oliva a quello dei succulenti shawarma grigliati (Aleppo è la città siriana dove si mangia meglio in assoluto) le garantiscono la magica atmosfera di una città araba, ma i dintorni hanno un fascino imbattibile. La notte prima di ripartire, ascoltando in tv il Presidente egiziano Mubarak annunciare le dimissioni e le urla delle persone che affollavano piazza Tahrir al Cairo, nonostante la calma apparente dei nostri ospiti, sentivamo che la terra avrebbe cominciato a tremare anche lì.
Alla tentazione di avere una guida per proseguire il viaggio non abbiamo resistito e con un taxi ci siamo avventurati a nord-ovest, verso la Turchia. Prima tappa: San Simeone. Preziosa meta archeologica, prende il nome dell’anacoreta che nel IV secolo d.C. decise di ritirarvicisi al riparo di una grotta. Ben presto però la notizia si diffuse, e l’uomo desideroso di solitudine si ritrovò assediato da pellegrini in cerca di benedizione. Cominciò così a costruirsi una colonna sempre più alta sulla quale decise di vivere, per predicare di tanto in tanto dall’alto. Oggi resta solo una grande pietra al centro di una Basilica, circondata da un incantevole panorama. La leggenda di Simeone lo Stilita ha ispirato il capolavoro di Bunuel “Simon del deserto”: ritrovarsi lì dopo aver visto il film è una sensazione indescrivibile. Dopo il giro delle Città Morte, respirando l’aria inquietante di città abbandonate e quasi intatte, ci siamo diretti verso Palmira.
Il nostro albergo era nel mezzo delle rovine greco-romane: il suo nome, Zenobia Hotel, è in onore della ‘Regina ribelle’, la prima donna della storia che a capo del proprio esercito affrontò e sconfisse in battaglia i legionari imperiali, dichiarando l’indipendenza da Roma. In un’atmosfera da sogno, dopo aver visto sorgere il sole dalla collina dove si erge il castello, con la nostra guida ci siamo addentrati nel deserto. Persino qui, un cartellone con l’immagine del Presidente. L’avevo vista nelle piazze delle città, nei locali pubblici, sulle tendine parasole delle macchine e sui magneti da attaccare ai frigoriferi, ma tra queste pietre mi domando se, alla luce della Primavera Araba, la sua dinastia sarà altrettanto immortale. In lontananza si fatica a distinguere i veri villaggi beduini dai set fotografici o cinematografici, perfettamente riprodotti. Grazie al nostro accompagnatore ne abbiamo visitato uno ‘originale’: qui una famiglia, i cui componenti rispondevano tutti al nome di Mohammed, ci ha ospitato due ore nella sua tenda, offrendoci the e mostrandoci cuccioli di capra, dal pelo morbidissimo e inaspettatamente gradevole all’olfatto. Me la sentivo ancora addosso la sensazione di quel cucciolo, sulla via del ritorno, superando giovani pastorelli con le loro greggi, piccole oasi, cani girovaghi, un’isolata e pittoresca locanda dal nome ‘Baghdad Caffé’. E mentre i ricordi cominciavano a gonfiarmi il cuore, sapevo che un giorno mi sarebbe mancata anche la loro monomelodica musica.
DETTAGLI DI VIAGGIO
ENTRARE IN SIRIA ANCHE IN QUESTO PERIODO NON SEMBRA ESSERE UN PROBLEMA. I VISTI TURISTICI VENGONO RILASCIATI DALL’AMBASCIATA SIRIANA CON IL SOLITO ITER BUROCRATICO. UNICO OSTACOLO: AVERE SUL PROPRIO PASSAPORTO TIMBRI DI ENTRATA O USCITA DI ISRAELE O DI LOCALITÀ DI FRONTIERA DI PAESI AD ESSO LIMITROFI. SI VERREBBE IMMEDIATAMENTE FERMATI O RISPEDITI A CASA