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di Mister & Boss

foto di Valerio Angelelli

 

Che pene atroci soffriva

una rupe gigante reggendo con entrambe le braccia

Ma quando già stava per superare la cima,

allora lo travolgeva una forza violenta

di nuovo al piano rotolando cadeva la rupe maligna.

Omero, Odissea

Nel cuore dell’isola di Giava, in Indonesia, a 2.148 metri di altezza si staglia il cratere dell’Ijen, uno dei più imponenti vulcani del paese, ormai inattivo ma dalle viscere ancora roventi. All’interno del cratere, un grande lago turchese dalle acque sulfuree ha riempito la bocca del vulcano e affacciata su di esso si trova una delle principali miniere di zolfo indonesiane, un’intera parete giallo acido dalla quale i minatori estraggono con lance di metallo grandi lastre di questo elemento chimico.Le condizioni sono estreme: l’aria soffiata sulle pareti per ammorbidire lo zolfo supera i duecento gradi e i minatori sono immersi per intere giornate nei fumi tossici dei gas sulfurei che bruciano i polmoni, la pelle, gli occhi. Uno spazio in cui la contemporaneità fa fatica ad entrare, se non per la piega paradossale che il concetto assume in certi luoghi del pianeta.

Lo zolfo, una volta estratto, viene riposto dentro ceste di bambù fissate su un bilanciere capace di caricare oltre 70 kg e portato a spalla dagli stessi minatori che si inerpicano sulle ripide pareti del cono del vulcano fino alla cresta, per poi discendere lungo il pendio di oltre 4 km che porta al campo base. Questo per due volte al giorno e per un compenso di appena 10 euro: un salario che gli permette a malapena di sopravvivere.

La nostra sveglia suona alle tre del mattino. Dopo avere preparato la colazione al sacco saliamo sulle jeep che ci porta verso il vulcano e dopo circa un’ora di tornanti siamo quasi in cima. Gli ultimi chilometri si fanno a piedi. In circa due ore di camminata arriviamo sulla cresta del cratere, ha ormai smesso di albeggiare e il sole è già alto e caldo nel cielo. Armati di macchine fotografiche e varia tecnologia, ci troviamo di fronte questo nuovo mondo antico che ci scuote per il contrasto evidente tra la nostra presenza e l’istallazione millenaria sulla quale poggiamo i piedi. Il cratere sembra il ventre aperto di un gigantesco animale preistorico, e lo sguardo si perde all’interno delle sue viscere, dove tutto è rimasto uguale a se stesso da tempo immemore. È come se il vulcano e i chilometri di foresta intorno avessero creato una barriera in grado di isolare questo luogo dai feticci della contemporaneità.

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Ad un tratto, un minatore ci appare uscendo dai densi fumi carico di zolfo, alza lo sguardo verso di noi ma senza fermarsi, e io scatto una foto d’istinto. In un certo senso, l’uomo è come una metafora vivente, una sorta di moderno Sisifo.

Vista dall’alto sembra l’ambientazione perfetta per un nuovo episodio del Signore degli Anelli, con decine di fumarole che sputano vapori tossici e caldissimi e sfumature di colore nelle pareti che sembrano dipinti da scenografi esperti. Attratti come il giovane Frodo dalle viscere del Monte Fato, scendiamo il crinale fino al cuore della miniera, guidati da uno dei minatori e tenendo ben a mente l’avvertimento della guida, che ci ricorda la disavventura di un giovane turista tedesco che perse la vita scivolando dal pendio.

Mentre ci muoviamo impacciati con scarpe da trekking e zainetti ultraleggeri, al nostro fianco passano i minatori che salgono e scendono con le ceste in spalla e sandali infradito. Procedono con estrema facilità, loro conoscono ogni singolo centimetro del percorso fatto ormai centinaia di volte. Più ci avviciniamo e più l’odore di zolfo si fa intenso, ci brucia gli occhi, il naso e la gola. Arriviamo alla base della miniera, tocchiamo l’acqua calda del lago, ci avviciniamo ai minatori che ci mostrano come lavorano e ci offrono pezzi di zolfo come souvenir in cambio di una sigaretta.

Ci sarebbe piaciuto avere il tempo di osservarli meglio, di farci spiegare il loro lavoro, ma dopo pochi minuti l’aria diventa irrespirabile. Iniziamo a sentire un sapore amaro in gola, a tossire e lacrimare. Meglio allontanarci. Mentre risaliamo ci chiediamo come sia possibile passare ogni giorno ore e ore in quell’inferno, sopportare tanta fatica. Inizia la risalita con la consapevolezza di aver visto qualcosa di cui parleremo a lungo durante il resto del viaggio e nei nostri racconti una volta tornati a Roma.

Un luogo in cui la contemporaneità non significa soltanto l’attuale negli abituali termini trionfalistici in cui si celebra il presunto avanzamento della nostra storia, ma anche il contestuale: la compresenza di realtà, anche lontanissime, e di un’epoca arrivata alla propria linea di confine e costretta a ripensare le proprie categorie fondanti di progresso, sviluppo, sfruttamento, profitto, espansione.

L’Ijen è un posto in cui la bellezza dello scenario stride con le atroci condizioni di lavoro alle quali sono costretti questi minatori e dove tuttavia lo scambio è umano, diretto, immediato, senza tempo. Disarmante, ma anche sorprendente, è stato vedere i volti di questi uomini che, seppur sfiniti, sono pronti ad un sorriso e che, per fermarsi e farsi fotografare, ti chiedono una caramella, un biscotto o una sigaretta. Beni scontati per noi. Per loro un risparmio importante che gli lascia in tasca qualche spicciolo in più alla fine della giornata.

special thanks to Tommaso Fagioli

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