di Brian Burke-Gaffney
Hashima si trova nel Mar Cinese Orientale, a una quindicina di chilometri da Nagasaki. Uno sguardo più attento rivela gruppi di grattacieli disabitati che premono contro una diga artificiale, un santuario malconcio in cima a una scogliera ripida, e non un solo albero in vista.
La chiave del mistero dell’isola si trova nelle miniere di carbone. Nel fondo dell’oceano circostante fu rilevata la presenza di giacimenti, e furono costruite lunghe gallerie discendenti per sfruttare la risorsa. L’azienda Mitsubishi acquistò l’isola nel 1890 e avviò le operazioni in concomitanza con l’ascesa del Giappone come potenza militare e industriale, utilizzando le scorie degli scavi per creare uno spazio pianeggiante, costruendo una diga marina tutt’intorno all’isola, ed erigendo i primi grattacieli giapponesi in cemento armato.
Nel 1941 la produzione di carbone annuale di Hashima aveva raggiunto un picco di quattrocentomila tonnellate, in cambio però di un pesante tributo in termini di sofferenza umana. Mentre i giovani giapponesi scomparivano sui campi di battaglia della Cina, del Sud-Est asiatico e del Pacifico, il governo reclutava con la forza un numero elevato di coreani e cinesi per riempire i posti vuoti nelle fabbriche e nelle miniere. Alla fine della guerra, nel 1945, circa milletrecento lavoratori stranieri erano già morti sull’isola.
Dopo la seconda guerra mondiale, Hashima e altre miniere di carbone fiorirono di nuovo, questa volta fornendo combustibile per la notevole ripresa economica del Giappone. Nel 1959 la popolazione di Hashima era di 5.259 persone. Con 835 abitanti per ettaro aveva la più alta densità di popolazione mai registrata sulla terra.
Nel 1974, quando il petrolio stava sostituendo il carbone nei sistemi energetici nazionali, Mitsubishi decise di chiudere la miniera e di sfruttare i lavoratori in altri settori della sua rete industriale in espansione. A marzo di quello stesso anno, gli ultimi abitanti abbandonarono l’isola al vento e alla salsedine, lasciando solo cose inutili e un paio di gatti che non si fecero catturare.
Folate di primavera e nuvole bianche galleggiavano nel cielo il giorno che visitai Hashima. La barca noleggiata ruggiva mentre rimbalzava da un’onda all’altra e schivava l’ultima isola-boa all’entrata del porto di Nagasaki, fino a raggiungere la diga di Hashima. Quando saltai dalla barca su una sporgenza di cemento che una volta forse sosteneva un molo, mi sentii come se stessi salendo a bordo di una grande nave che aveva misteriosamente perso tutti i suoi passeggeri durante la navigazione in un’acqua maledetta come quella del Triangolo delle Bermuda.
Per due ore vagai tra gli edifici cupi e minacciosi, esplorando le corsie e i corridoi, sbirciando nelle stanze, frugando tra pezzi di carta e immaginando la vita umana in quei luoghi. Il deterioramento era molto più grave di quanto mi aspettassi. Quasi tutte le finestre erano rotte. Grandi lastre di rivestimento in cemento erano cadute dalle pareti ed erano sparse sui pavimenti. Porte, persiane e ringhiere mezze marce pendevano dai cardini e cigolavano nel vento.
L’isola era disseminata di elettrodomestici, mobili e altri oggetti che oggi non si troverebbero nemmeno nelle discariche. Sembrava un museo popolare degli anni Sessanta. Nella stanza in cui la gente attendeva la nave per Nagasaki, sulla parete c’erano ancora l’orario delle partenze, un orologio e un calendario congelati al 1974.
Il caos all’interno degli edifici era sorprendente. Il teatro, gli uffici, l’ospedale e gli altri luoghi pubblici ricordavano le scene che seguono i terremoti. Al tempio Senpukuji qualche visitatore premuroso aveva legato un pezzo di corda intorno alla testa di una statua per evitare che cadesse a pezzi. Quel Buddha in meditazione sembrava più un soldato bendato, seduto in stato di shock tra le macerie di una città devastata.
Era opera dei vandali, mi sono chiesto, o il lavoro degli spiriti dell’isola infuriati da quella solitudine terribile? O erano i fantasmi dei lavoratori coreani e cinesi morti prematuramente che battevano i piedi nei corridoi e nelle stanze, di notte, implorando la loro libertà?
Un visitatore prima di me, forse un ex residente, aveva usato della vernice spray per lasciare un messaggio sul muro di uno degli edifici:
Quanti decenni son potuti passare
Da quando Hashima è stata lasciata a marcire;
Lasciata a rovinarsi, a marcire, a disintegrarsi?
La vita non potrà mai tornare su quest’isola.
Non sentivo alcun bisogno di guardare indietro quando saltai dalla sporgenza di cemento sul ponte della barca a noleggio che era tornata a prendermi. E mentre guadagnavamo velocità e ci dirigevamo verso Nagasaki immaginai che, invece di essere spinti dai motori, venivamo tirati dal richiamo delle verdi colline rigogliose all’orizzonte e dalla promessa di ricongiungimento con la famiglia e gli amici.