testo di Massimo Morello | bassifondi.com
«Domani c’è la luna rossa. Andiamo a Koh Samet». È una frase che si sente ripetere spesso nelle serate di Bangkok, quando ci si ritrova tra expat, gli espatriati occidentali che vivono nella capitale thai. Farang, stranieri, li chiamano i thai.
La luna rossa in realtà è un fenomeno astronomico che si verifica durante le eclissi lunari. Ma ormai è un modo di dire per la luna che si vede grande e bassa sull’orizzonte, rossa per una semplice illusione ottica. E comunque è un pretesto come un altro per un week end a Koh Samet (o Samed, come suona in thai). Il contrasto con la spiaggia bianca ha un che di elettrico. Anche perché è sottolineato dalle lampadine colorate dei ristoranti e dei bar beach style.
L’isola – questo significa koh – sulla costa orientale del golfo di Thailandia è una delle più facilmente raggiungibili da Bangkok. Sono poco più di duecento chilometri sino al porto di Rayong (a sua volta vicino a Pattaya, una delle più note località turistiche thai: spiagge lunghe, grandi alberghi e molte luci rosse) e da là un breve tratto in barca. Due, tre ore in tutto per un costo che va da poco più di 500 baht (12 €) a 3000 (66 €). Dipende da come si viaggia: bus, minivan, taxi, traghetto o motoscafo. Ecco perché Koh Samet è tanto frequentata dagli expat: si decide la sera a cena e il giorno dopo si è in spiaggia per pranzo.
Per gli stessi motivi è tanto frequentata dai giovani thai. Non i rampolli della Hi-So, l’alta società (come qui si definiscono senza alcuna ironia), che hanno altre destinazioni, ma i figli della nuova middle-class. Non a caso Samet è stata scoperta dai loro padri, all’inizio degli anni Ottanta, quando la Thailandia viveva il boom economico delle Tigri Asiatiche. Hanno scelto Samet come luogo di ritrovo per festeggiare qualsiasi ricorrenza personale o nazionale (il calendario locale è fittissimo d’occasioni) e celebrare i riti del sanuk, il divertimento, uno dei cardini della kwampethai, la “thailandesità”. Samet è anche il luogo perfetto nella visione romantico-pop nazionalpopolare: è lo scenario in cui si svolge Phra Aphaimani, poema di Sunthorn Phu (1786-1856) uno dei più amati poeti thailandesi, storia di un principe esiliato in un regno sommerso, che con l’aiuto di una sirena riesce a fuggire proprio in quell’isola.
È una zona, invece, poco frequentata dai turisti in cerca di trasgressione o di una seconda gioventù, che normalmente si arenano a Pattaya. «Non c’è nemmeno il solito italiano “scoppiato” che apre una pizzeria con una ragazza thai che l’ha agganciato in un bar» dice una frequentatrice di Koh Samet. Lei ci va proprio per quest’assenza.
Assente anche la tribù dei backpacker, dei lonely-planeter, i giovani occidentali in giro per le vie dell’Asia alla ricerca di The Beach. Forse perché Samet è troppo poco “remota”, o perché non è vero che tutti i giovani sono uguali e quelli thai si divertono in modo diverso. Il senso del pudore delle ragazze della borghesia thai è inversamente proporzionale a quelle dei bar e il massimo dello sballo è un cocktail di whisky e red-bull (anzi, di krating daeng, che significa sempre toro rosso ed è la bevanda energetica che ha ispirato la sua versione occidentale). I party, poi, finiscono al massimo a mezzanotte e la musica è spesso del genere luuk thung, versione locale del country, e sempre intervallata da un chun rak ter, “ti amo”. Per i full moon party bisogna spostarsi molto più a Sud.
La spiaggia, però, è proprio quella sognata: lunghissima, si distende su quasi tutta la costa orientale e, come in tutte le isole, è suddivisa da promontori e scogli: all’estremo nord la più bella – e quindi la più frequentata – di Hat Sai Kaeo, poi Phai Beach, Tub Tim e Pudsa. Tutte delimitate da una quinta di guest house e piccoli resort – non ci sono alberghi che superino l’altezza delle palme – a prezzi che variano da 900 a 20000 baht (da 20 a 450 euro) e ristoranti bordo mare che servono più o meno la stessa cosa: pesce, in genere fresco, quasi sempre al barbeque e volentieri accompagnato dalla nam pla, la salsa di pesce fermentato che dà odore e sapore ai piatti del Sud-Est asiatico.
Anche il gusto del nam pla, come tutto il resto, trasforma Koh Samet nel micro teatro di un cultural clash tra Oriente e Occidente. E anche per questo l’isola diviene un esempio, degli equivoci, delle illusioni e disillusioni (concetto proprio della cultura orientale) che si alternano tra le isole come i flussi delle maree, elemento spesso trascurato. Secondo il sociologo francese Marc Augé, il viaggiatore contemporaneo insegue le immagini che hanno costruito il fascino di un luogo, cercano quello che è troppo bello per essere vero. Il desiderio del viaggio è quello di toccare l’immagine matrice. Se c’è un luogo al mondo in cui tale desiderio possa realizzarsi, questo è la Thailandia. Chiusa tra due mari, da migliaia di chilometri di costa che alternano distese di sabbia, specie a Est, e spettacolari pareti calcaree, a Ovest, che degradano in fondali corallini e acque disseminate da formazioni carsiche scolpite dal vento e dal mare, fronteggiate da una miriade di isole e isolotti riuniti in arcipelaghi o isolati nell’oceano, è una sequenza continua di immagini matrici. Qui, davvero, ognuno materializza il proprio sogno, che sia quello della spiaggia perfetta o dell’isola perduta, di una foresta vergine, di un panorama che sembra uscito dal pennello di un acquarellista orientale, ma anche il sogno della vacanza in un resort dal lusso esotico o in un centro turistico che offra ogni possibilità di divertimento e sport.
Il problema è non perdersi tra tante suggestioni e riuscire e vedere anche aldilà di quelle immagini, per scoprire aspetti di vita e di cultura che a volte restano celati: la tradizione, l’economia, i cambiamenti sociali. Ma il problema maggiore è di non valutare l’isola secondo quell’immagine matrice. Sarebbe come osservare il dito che la indica anziché la luna. Che sia rossa davvero o appaia tale.
Alla fine, tanto per evitare sorprese: tra maggio e settembre Koh Samet è perturbata dal monsone. Per qualcuno è la stagione migliore.