estratto dal libro di Rossano Astremo 101 cose da fare in Puglia almeno una volta nella vita (2009, Newton Compton Editore)
Imparare il francoprovenzale visitando Faeto (Provincia di Foggia)
Questo viaggio ha inizio da Faeto, un paesino con poco più di mille anime. Si trova a 866 metri d’altitudine e da questa altezza domina tutto il Tavoliere. Faeto, assieme al vicino paese di Celle di San Vito, rappresenta l’unica comunità linguistica francoprovenzale presente nell’Italia centromeridionale. Altre comunità sono presenti in zone circoscritte della Valle d’Aosta e del Piemonte. Perché a Faeto si parla il francoprovenzale è presto detto. Bisogna risalire alla sua origine. Faeto nasce nella seconda metà del XIII secolo, quando il re Carlo d’Angiò, duca di Provenza e re di Sicilia, durante l’assedio dei Saraceni di Lucera, invia duecento soldati provenzali presso il castello di Crepacore. Sconfitti i Saraceni di Lucera, Carlo d’Angiò concede ai duecento soldati provenzali di restare nel quasi disabitato castello di Crepacore, facendosi successivamente raggiungere dalle rispettive famiglie. Verso il 1340, abbandonata la zona, divenuta insicura per il frequente passaggio di eserciti e la presenza di briganti, la comunità si sposta nella località dove sorge ora Faeto, dando origine al paese. Il lascito più importante della presenza degli angioini in questa terra è rappresentato proprio dalla lingua francoprovenzale. Da molti ritenuta fino a pochi anni fa soltanto un dialetto, elevata ai ranghi di lingua grazie a una legge del 1999, il francoprovenzale, oggi, è cultura e patrimonio incontestabile di tutta la popolazione faetana. Passeggiare tra le strette e anguste strade del paesino, dialogare con la gente del luogo è un’occasione per entrare in vivido contatto con la storia e le tradizioni della comunità.
Ricordare Andrea Pazienza tra le strade di San Severo (Provincia di Foggia)
Penso a Pompeo, uno degli ultimi fumetti pubblicati in vita da Andrea Pazienza, il suo indiscusso testamento artistico. In Pompeo Pazienza racconta le ultime ore di un giovane insegnante di disegno totalmente perduto nella sua vita piena di deliri e disperazione, che solo una dipendenza da eroina sa donare. Pompeo racconta la discesa all’inferno di un uomo dotato di talento, ma che del talento non sa che farsene, un uomo da tutti lodato per la sua creatività, ma che venderebbe anche la madre per un grammo di eroina, per un’ora di paradiso. L’osmosi tra racconto disegnato e autobiografia è schiacciante. Era nel 1985 quando Pompeo venne pubblicato. Pazienza morì di overdose tre anni dopo, a soli trentadue anni. È stato, certamente, uno dei più grandi creativi degli ultimi trent’anni, uno di quei geni sregolati per i quali ogni forma di costrizione lavorativa ed esistenziale era un cappio al collo che lo portava alla morte per consunzione. Ha raccontato una generazione intera Pazienza, la sua, quella generazione che, dopo il fallimento del sogno “rivoluzionario” del ’77, della partecipazione collettiva al cambiamento della società, si è rinchiusa in se stessa, mutando aspetto, divenendo individualista e tossica. Zanardi, Pertini, Tormenta e mille altri personaggi, mille altre tavole, per raccontare il mondo visto dai suoi occhi di visionario, di poeta del fumetto. Pazienza era cresciuto a San Severo. Era andato via a tredici anni, destinazione Pescara, per frequentare il liceo artistico e, dopo questo, partì per Bologna, destinazione DAMS. Ci tornava spesso Pazienza a San Severo. Quest’allontanamento fisico dal suo paese d’origine non è mai stato un distacco emotivo. Anche San Severo, a oltre vent’anni dalla sua morte, è molto legato al suo illustre cittadino. Per conoscere qualche aneddoto su di lui basta passeggiare per le strade della città, fermarsi in qualche bar, fare qualche domanda, magari ai suoi coetanei, quei cinquantenni che, rispetto a Pazienza, hanno scelto un’altra idea di vita, quell’idea di omologazione rappresentata da: «il lavoro, il risparmio, il normale sfaldarsi del corpo, lo studio, 2+2 fa quattro, sveglia alle otto, cene d’affari». Le parole tra virgolette, ovviamente, sono le sue. San Severo ha dedicato una via e una piazza ad Andrea Pazienza.
Scrutare dal basso verso l’alto il gigante di Barletta
Nel 1204, una nave con a bordo un gruppo di soldati veneziani che tornava vincente da una crociata, per ignoti motivi affondò nei pressi della costa barlettana, assieme a tutto il carico prelevato dalla infedele Costantinopoli. Tra gli oggetti dispersi in mare c’era anche una statua in bronzo dalle enormi dimensioni. Qualche tempo dopo il colosso venne recuperato e collocato nella dogana vecchia del porto di Barletta. Lì rimase per circa cento anni, fino a quando i domenicani di Manfredonia, dopo aver ottenuto il permesso da Carlo d’Angiò grazie a un editto, staccarono gambe e braccia della statua per fonderle e ottenere delle campane per una chiesa in costruzione a Siponto. Solo anni dopo, nel maggio del 1491, pochi mesi prima della scoperta dell’America i barlettani decisero di issare su un piedistallo di marmo quel gigante di bronzo, per renderlo visibile all’intera cittadina e lo chiamarono Eraclio, in dialetto barlettano Arè. Il padre gesuita Paolo Grimaldi, infatti, affermò che la statua portata dai veneziani da Costantinopoli raffigurava l’imperatore Eraclio. A scolpirla, sempre secondo il gesuita, fu un certo Polifobo. Alcuni studiosi contemporanei, tra cui Testini, osservando la pettinatura, la corona, le vesti e confrontando la statua con un busto marmoreo conservato al Louvre di Parigi, sono giunti alla conclusione che il personaggio rappresentato non è Eraclio, ma l’imperatore romano d’Oriente Teodosio II, che salì al trono nel 408, mantenendo la carica fino alla sua morte, avvenuta nel 450. La statua rimase all’aperto fino alla seconda guerra mondiale. Poi venne coperta per evitare che i tedeschi se ne appropriassero per fonderla e ricavare munizioni e armi. Nel 1978 si decise di restaurare l’opera e il primo agosto il colosso, alto più di quattro metri, venne liberato dalle impalcature e reso visibile a tutti i barlettani e non solo. Che raffiguri Eraclio o Teodosio, il gigante di Barletta, che gli abitanti, nonostante quello che pensano gli storici, continuano a chiamarlo Arè, merita di essere visto almeno una volta nella vita.
Andare alla ricerca dell’Omphalos di Sovereto (Provincia di Bari)
L’omphalos, termine di origine greca che significa ombelico, sta a indicare un centro sacro, un luogo in cui il divino si incontra con il terreno. Molti si ritiene siano gli omphalos disseminati nel mondo. In Italia la tradizione degli omphalos è legata alla presenza di massi dalla forma rotonda, lavorati dagli uomini in epoche passate. Gli omphalos, comunque, non sono solo legati alla pietra. Sovente essi sono rappresentati da obelischi, menhir, pozzi o da uno stranissimo simbolo, quello della triplice cinta, riproduzione che rintracciamo in molti punti sacri, che consiste in tre quadrati concentrici e dei segmenti che uniscono i punti mediani dei lati. Tali strutture infatti sarebbero il mezzo stesso per segnalare la presenza di un ombelico. Un tipo particolare di ombelico è presente a Sovereto, piccola frazione del comune di Terlizzi, in provincia di Bari. Il suo nome sta a significare eretto sopra. Su cosa è eretto Sovereto? Cosa c’è sotto il suo terreno? Qui, nel passato, furono di passaggio numerosi pellegrini che, all’epoca delle crociate, percorrevano la via Appia diretti in Terrasanta. Secondo una leggenda accreditata, attorno all’anno Mille un contadino trovò, in una grotta, un’icona della Madonna e una lampada accesa. Così ebbe origine la chiesa di Santa Maria di Sovereto. L’effige trovata era quella di una Madonna Nera. Sul luogo dove sorge questa chiesa sono più di uno gli elementi di mistero. Diverse sono, ad esempio, le simbologie templari presenti nel luogo. Sui lastroni di due tombe presenti in chiesa sono raffigurati dei cavalieri con le tipiche insegne templari. Inoltre all’interno dell’acquasantiera di destra è presente la croce templare. Altro enigma: su un lastrone oggi usato come panca è visibile il simbolo della triplice cinta di cui abbiamo parlato all’inizio del capitolo. Questo simbolo, quindi, sembrerebbe indicare la centralità e la sacralità del luogo. L’idea di congiunzione tra realtà diverse la troviamo all’interno della chiesa, dove, vicino alla cripta, è raffigurato un albero, elemento cosmico per eccellenza, tramite tra cielo e terra. Sembra che la chiesa sorga su un nodo geomantico, cosa evidenziata anche dalla presenza in zona, ancora oggi, di numerosi menhir. Infine, sempre legato all’idea dell’omphalos, c’è la leggenda dell’acqua taumaturgica che scorre sotto la chiesa, lungo il letto di un piccolo fiume. Molti sono i testimoni che nel corso degli anni hanno affermato che l’acqua del pozzo nei pressi della chiesa ha compiuto un numero imprecisabile di miracoli, così come dimostrato dalla presenza nella parte esterna della chiesa di una lunetta in cui non solo è rappresentata la Madonna Nera, ma anche un uomo che sale i gradini di una scala che poggia sull’acqua. Sovereto, dunque, tra i simboli templari, centri di energia, menhir diffusi e acque miracolose, è un posto da visitare, per entrare in contatto con il lato meno solare e più enigmatico della Puglia.
Trascorrere una domenica alle Cesine e addormentarsi sotto un albero di pino (Provincia di Lecce)
La riserva naturale delle Cesine è una delle ottanta aree protette e gestite dal WWF in Italia, al fine di conservare l’habitat presente e alcune specie rare o minacciate. Si trova a pochi chilometri da Lecce ed è l’ultimo tratto della zona paludosa che un tempo si sviluppava tra Brindisi e Otranto. L’area comprende due stagni alimentati dalla pioggia, il Salàpi e il Pantano Grande, che non toccano i due metri di profondità, separati dal mare da un cordone di dune sabbiose raggiunte, in casi estremi, dalle mareggiate. L’abbandono delle zone bonificate ha determinato lo sviluppo della macchia mediterranea e del querceto sempreverde. I boschi sono formati dalla quercia spinosa e dalle pinete a pino d’Aleppo. Il litorale, con brevi tratti ciottolosi e a scogliera, presenta numerose piante dunali, mentre nella macchia mediterranea crescono piante di origine balcanica, tra le quali alcune specie di orchidee. Molto ricca è anche la fauna. La riserva delle Cesine, infatti, ha una notevole importanza perché si trova lungo una delle principali rotte migratorie. Qui sostano molti uccelli, tra i quali vere rarità, come il fistione turco, l’oca lombardella e il cigno reale. Le anatre sono il gruppo più numeroso. I limicoli frequentano la battigia insieme ai gabbiani. Tra gli uccelli di palude si trovano anche gli aironi, la garzetta e il martin pescatore. Nella pineta e nella macchia vivono il falco di palude e il gheppio. Tra i mammiferi, la volpe frequenta tutti gli ambienti. Gli stagni sono popolati anche da piccoli crostacei, larve di insetti e pesci. Tra i rettili si trova uno dei più rari serpenti europei, il colubro leopardino, dai locali chiamato Lingua di fuoco. Nei canali e negli stagni di acqua dolce si trovano le rane, i tritoni, la testuggine acquatica e la natrice. Un mondo di flora e di fauna davvero inesauribile. Le Cesine sono visitabili tutto l’anno. Da ottobre a giugno la riserva è visitabile solo la domenica, mentre per vederla negli altri giorni bisogna prenotare presso la cooperativa Le Cesine. In luglio e agosto è possibile visitare questa incontaminata zona naturale tutti i giorni a partire dalle dieci. Trascorrere una domenica alle Cesine vuol dire disintossicarsi dalla vita di città, lasciarsi affascinare dalla bellezza di una natura incontaminata, passeggiando tra gli spazi enormi che la innervano, per poi riposarsi e addormentarsi all’ombra di uno dei tanti pini che si incontrano lungo il cammino.
Immergersi tra le acque del mare spunnatu di Santa Maria di Leuca (Provincia di Lecce)
Questo viaggio, iniziato dalle altitudini di Faeto, paesino sperduto tra le montagne della provincia di Foggia, si conclude con un’immaginaria immersione tra le acque di Santa Maria di Leuca. Per chi arriva dal mare, Santa Maria di Leuca si presenta con una punta che sporge dalle acque, su cui si innalza un bianco faro. È l’estrema punta del Salento, collocata in una posizione per secoli considerata il punto d’incontro fra il mar Ionio e il mar Adriatico. In realtà, il confine ufficiale, oltre che naturale e storico, fra i due mari è rappresentato dal canale d’Otranto, ossia lo stretto di mare compreso fra il punto più a Est d’Italia, Punta Palascia, e Capo Linguetta in Albania. Ciò che è vero è che da Santa Maria di Leuca è a volte visibile, in determinate condizioni, una linea di separazione longitudinale, ben distinguibile cromaticamente, frutto in verità dell’incontro fra le correnti provenienti dal golfo di Taranto e quelle dal canale d’Otranto, che ha da sempre suggerito alla fantasia popolare un confine fisico fra i due mari. Santa Maria di Leuca deriva il suo nome dal termine greco leukos, che vuol dire bianco e da una dedica alla Vergine che la storia racconta sia stata decisa dallo stesso San Pietro, sbarcato su queste coste per cominciare la sua opera di evangelizzazione. Leuca era stata scelta in epoca fascista come foce dell’acquedotto pugliese. In alcune occasioni, tuttora, la cascata viene aperta generando un effetto davvero spettacolare. In ricordo di questa grande opera pubblica è stata costruita una monumentale scalinata che arriva fino alla Basilicata, meta continua di pellegrinaggi. Il suo litorale è prevalentemente roccioso, con costa alta che scende a picco nel mare. Tuffarsi nel cosiddetto mare spunnatu, nel profondo mare che bagna le sue coste, meta privilegiata di molti subacquei della zona, può essere considerato un dignitoso finale per un percorso lungo ed estenuante che ci ha portato a toccare i luoghi più noti e gli angoli più nascosti di una regione che non cesserà mai di stupire i suoi visitatori per la sua indomita bellezza.