Nigde. Una cinquantina di chilometri ci separano dalla nostra meta eppure Nigde non era assolutamente sulle rotte che più o meno avevamo scelto. A volte le rotte, i luoghi, ti scelgono come le malattie, come i colpi di fortuna, come i temporali. Lo Straniero,un personaggio misterioso in un film che adoro, dice «A volte sei tu che mangi l’orso e a volte è l’orso che mangia te». Se mi trovo in una stazione di servizio, alle due di notte, circondato da una ventina di poliziotti, evidentemente le cose dovevano andare in questo modo.
Erano vari giorni che non scrivevo, andando contro tutti i buoni propositi, eppure credo che gli ultimi cinque o sei giorni siano stati i più concitati, contraddittori, emozionanti giorni di questa avventura. Paesone di centomila abitanti a Sud della Cappadocia, con nessuna attrazione. Come siamo arrivati a Nigde?
Tutto ha una spiegazione, tutto è frutto di una serie di coincidenze legate tra di loro, una serie di fatti concatenati dal dipanarsi inverosimile. È quello che ti accade se ti muovi, se fai in modo che le cose si muovano. Diavolo se si sono mosse le cose. A favore e contro di noi, ma è l’avventura, la straordinaria bellezza dell’avventura, della libertà che ti porta a imprecare o a fermarti per asciugarti gli occhi un attimo dopo, perché il bello che stai guardando lo ricorderai per tutta la vita.
Se ci troviamo a Nigde è anche per colpa delle pose stupide che la gente assume quando si fa le fotografie. Apparentemente non vuol dire nulla ma non è così, un significato esiste. Allora prima di iniziare a raccontare credo che questo storia possa essere dedicata alle coincidenze, alla via della seta, ai caravanserragli e ai meccanici turchi.
Qualche giorno fa, non ricordo di preciso quando, dopo il campeggio variopinto di Foca siamo andati a Efeso. Sin da piccolo sognavo di poterne visitare le rovine. Sogno realizzato. Ma proprio a Efeso qualcosa di inquietante ha iniziato a disturbare la nostra tranquillità. Gente, gente ovunque. E fin qui è normale anche se odio i posti troppo affollati e i turisti. Odio i turisti e odio essere trattato da turista. Mi considero un viaggiatore ma se vai nei posti turistici verrai inevitabilmente trattato come turista e cioè come bancomat da tutti quelli che possono speculare e come una pecora da chi gestisce musei e siti particolarmente affollati.
La visita a Efeso ci ha innervosito e allora abbiamo deciso di lasciare la costa per andare a Pamukkale. Pamukkale in turco vuol dire castello di cotone. Quando arrivi a Pamukkale vedi la cima di un monte completamente bianca, e credi che si tratti di neve. Poi ti avvicini e ti rendi conto che non è neve. Il carbonato di calcio nelle profondità, sgorgando con l’acqua attraverso delle sorgenti, si deposita creando una piattaforma rocciosa bianca. Il posto è uno dei pochi al mondo in cui si verifica questo fenomeno. Scendendo verso valle l’acqua ha creato delle vasche naturali.
A Pamukkale sorgeva l’antica città di Hierapolis, una città nota per l’integrazione di diversi gruppi etnici e religiosi. A Pamukkale, però, la situazione era peggiore di quella trovata a Efeso, con la differenza che qui la gente si accalcava nell’area ristretta delle vasche. Un carnaio.
Nonostante sia patrimonio dell’Unesco e quindi tutelata da norme particolari, a Pamukkale è possibile camminare in alcune di queste vasche naturali. Camminare e non nuotare perché l’acqua sarà profonda si e no trenta centimetri. Che necessità c’è? Che bisogno c’è di far camminare una serie di imbecilli in costume da bagno nelle vasche di Pamukkale? Vasche che tra l’altro rischiavano un deterioramento pesante fino a qualche anno fa in quanto la gente nell’acqua ci faceva anche lo shampoo.
Sul colle delle vasche, lo dicevo prima, si trovano anche le rovine di Hierapolis quindi, mentre a Efeso il turismo è più mirato, cioè chi ci va lo fa con la consapevolezza di vedere un sito archeologico, chi si aggira tra le rovine di Hierapolis, lo fa, spesso, solo perché ha pagato il biglietto per la passeggiata nelle vasche.
Conclusione: una massa di imbecilli in costume da bagno che dopo aver camminato in vasche il cui equilibrio microbiologico è a serio rischio, si aggirano ignari della portata storica di quel luogo. Ogni capitello diventa un trespolo, ogni colonna diventa un appoggiatoio per improbabili foto ricordo. Ho assistito a scene raccapriccianti. Signore di mezza età con carne traboccante da strettissimi costumi da bagno in pose sexy su capitelli corinzi, aspiranti pin up con sguardi libidinosi abbracciare colonne vecchie trenta secoli, nerboruti uomini in boxer in pose statuarie su pietre miliari romane come se le incisioni in greco o in latino dicessero «ecco a voi l’uomo più figo del mondo». Il tutto per portarsi a casa inutili foto ricordo.
A questo punto abbiamo deciso di lasciare l’interno della Turchia per l’Antalia, a Sud, sul mare. Ho sempre sentito declamare le bellezze di questa regione, ma al nostro arrivo la situazione è stata sconfortante. L’Antalia è la riviera romagnola della Turchia, solo con il mare bello ma con un’infinità di ecomostri. Alberghi ovunque, alberghi grotteschi, a forma di transatlantico, di antico tempio greco, alberghi in stile vittoriano e in stile veneziano costruiti rubando chilometri di spiaggia. Abbiamo dovuto percorrere ottanta chilometri per trovare un campeggio dove fermarci.
Luoghi che automaticamente diventano non luoghi, di plastica, finti, omologati, come gli aeroporti o i Macdonald. Luoghi che perdono la propria essenza, la propria verginità primordiale. Il nostro girovagare convulso e ramingo ci stava portando in posti dove restare mezza giornata era una tortura. Avremmo dovuto seguire la costa per altri 150 chilometri. Invece abbiamo deciso di issare le vele e cambiare completamente rotta. Abbiamo puntato la prua verso Konya. La nostra scelta ha cambiato il tenore di quello che stava accadendo.
Konya, città con più di un milione di abitanti, patria del sufismo e di Mevlana, grande poeta e religioso turco, ci ha accolto come una madre, con l’ospitalità tipica di un popolo che da sempre accoglie viandanti, lungo la via della seta.
Sembra di essere in un’altra Turchia, una Turchia dove il tempo non è mai passato. È il 2013 ma le facce, i modi di fare, l’aria sono ancora quelli di 800 anni fa. Siamo riusciti a parcheggiare al centro, proprio vicino alla grande moschea. E al mattino è stata la preghiera del muezzin a svegliarci. È uno degli aspetti affascinanti dei paesi islamici. Come le campane da noi, solo che i muezzin cantano la grandezza di Allah. E lo fanno in un modo antico, melodioso, accattivante, attraverso i megafoni. Dopo una preghiera sulla tomba di Mevlana abbiamo continuato.
La strada era una striscia continua, una cicatrice attraverso l’altopiano anatolico. Il dio del viaggio ci stava mandando, attraverso la casualità di quell’imprevisto, la possibilità di fermarci per la notte in un posto dove milioni di mercanti, viaggiatori, pellegrini si fermano da secoli. Senza fretta abbiamo visitato il caravanserraglio poi il caso ha voluto che all’ingresso ci fosse un turco che aveva vissuto per vent’anni a Bologna. Ci ha indicato un meccanico, tamirgi, come si dice da queste parti, in un perfetto italiano. Fuori dal paese, in una spianata dove in una serie di capannoni lerci puoi trovare un po’ di tutto: dal gommista al meccanico, al fabbro al riparatore di mietitrebbiatrici. Intorno a noi la steppa anatolica. Ahmed, il meccanico, ha iniziato ad armeggiare. Con la calma di un meccanico lento e posato dell’Anatolia.
E qui abbiamo incontrato Mustafà. Completamente ubriaco nonostante i precetti della religione, bocca sdentata come quella di un lattante, Mustafà ci ha fatto da interprete grazie al suo inglese quasi incomprensibile.
Abbiamo cercato un altro meccanico ma il problema era più serio di quello che sembrava. Siamo stati indirizzati a Nigde. La strada per arrivare in questo posto passa attraverso le montagne. Un saliscendi di trenta chilometri su una strada che nelle parti migliori aveva una corsia e mezzo e che abbiamo percorso in un’ora. Panorami meravigliosi. Senza pensare che in caso di necessità non avremmo avuto il freno a mano ad aiutarci, siamo riusciti a giungere a destinazione. Le nubi di un temporale coloravano di blu le montagne, rosse e gialle nei punti dove sciabolate di luce riuscivano ad attraversarlo.
A Nigde i freni si sono bloccati definitivamente davanti ad un chioschetto di kebab. Il padrone del chioschetto ci ha regalato un’altra maglia da aggiungere alla catena di coincidenze: era parente del meccanico del centro autorizzato Volkswagen. Meccanico trovato, officina trovata. La scritta WOLKSWAGEN con due W non è molto confortante, ma un installatore di ascensori, Sabri, che passava qui per caso e che parla inglese perché sua sorella vive in Scozia, ci ha assicurato: «Ahian is special!».
Ahian, il nuovo meccanico, ha prima imprecato contro Ahmed, il primo meccanico, poi, con fare da dottore che analizza meticolosamente il suo paziente, ci ha comunicato la diagnosi ed è andato nel retro della sua officina ritornando con il pezzo di ricambio. Ahmed aveva tirato troppo il cordino del freno a mano, l’aveva messo in tensione e le vibrazioni hanno fatto il resto facendo si che il perno del cordino bloccasse le ganasce dei freni.
La fortuna di avere un mezzo come il Vostok sta nel fatto che un bravo meccanico, senza bisogno di computer, senza installare centraline elettriche, può trovare sempre la soluzione. Ahian ha trovato il pezzo di una vecchia Golf, l’ha modificato, gli ha saldato un occhiello e ha risolto definitivamente il problema. Ci ha anche proposto di cambiare il disco della frizione. Qui l’arte di arrangiarsi è di casa e i pezzi di ricambio li rigenerano. Come quelli che vanno in Slovenia a rifarsi i denti. Con una spesa irrisoria domani avremo un disco della frizione nuovo di zecca o quasi. Inshallah! Per trenta euro ci ha riparato il freno a mano, offerto del tè e indicato una stazione di servizio sicura, dove durante il turno di notte la polizia viene a bere qualcosa di caldo utilizzando il bar come centrale operativa.
Ecco perché a volte se non sopporti le foto ricordo stupide, ti puoi ritrovare a Nigde a sorseggiare tè con venti poliziotti che intanto stanno andando via alla spicciolata, lasciando posto ai camionisti. Sono incuriositi e uno di loro mi chiede in un francese stentato cosa diavolo ci fa un italiano in un bar di una stazione di servizio a Nigde. Sono felice. Scoppio a ridere da solo.
Come si dice coincidenze in turco?