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Penisola di Gallipoli. Ora del tramonto. Sullo stretto dei Dardanelli un viavai costante di navi cariche di container saluta il tramonto della nostra prima giornata in Turchia. La Cappadocia non è così lontana, e noi ci arriveremo facendo un giro molto largo. Partiti stamattina da Alessandropoli abbiamo deciso di passare per il Sud della Turchia, invece che tagliare verso Istanbul e scendere in Cappadocia. Non esiste un perché, o forse sì.

L’abbiamo fatto istintivamente, forse perché le strade più comode, gli itinerari più scontati, le cose facili ci stanno strette. Passare la frontiera non è stato difficoltoso. In realtà abbiamo temuto perché Peppino aveva dimenticato il passaporto e da qualche parte avevamo letto che per entrare in Turchia con un mezzo proprio non era sufficiente la carta di identità.

Non abbiamo ancora capito perché alla frontiera turca ci siano ben tre check point per il controllo dei documenti. A ogni check point scene sconfortanti. All’ultimo alcuni ragazzi tedeschi con un camper simile al nostro attendevano da ore di poter passare. Memori dei passaggi per alcune frontiere dei Paesi dell’Est, dove per eccessiva solerzia o alla ricerca di una bustarella, la polizia ci aveva fatto scaricare l’intero contenuto del Vostok, lo scorso anno, ci eravamo avviati verso la frontiera con estrema rassegnazione.

All’ultimo controllo ci fanno cenno di passare, poi ci ripensano e ci fermano. Cercando di scoprire chissà cosa, girano e rigirano i documenti tra le mani, come se un arcano mistero sul nostro passato gli si dovesse materializzare davanti. Poi l’OK, tutto fila liscio. In venti minuti sbrighiamo tutte le pratiche burocratiche e passiamo.

La Turchia ci è parsa subito più caotica eppure più rilassata rispetto alla Grecia. Un’autostrada in costruzione ci ha accompagnato fino a Kesan. È lì che il guizzo creativo, il piglio da viaggiatori che si complicano la vita ha sopraffatto la razionalità e abbiamo deciso di non proseguire per Istanbul. Così abbiamo preso la strada per la penisola di Gallipoli.

La Turchia mi ricorda per certi versi il Marocco. Caotica eppure rilassata. Atmosfere lunari e strade piene di crateri si alternano a strade in costruzione. Un Paese in fermento dall’anima contadina. Ovunque mezzi di fortuna, chioschetti e bar improvvisati che spuntano nel nulla. E poi gente che cammina. Gente che cammina sul bordo della strada. Che poi è l’immagine dell’Africa sahariana che ricordo con più curiosità. Stai percorrendo una strada, non c’è ombra, non ci sono cartelli, non ci sono città nei paraggi eppure ti imbatti in gente che cammina.

Mi sono sempre chiesto dove andassero e perché camminassero in posti così solitari. E poi ho capito che le mie erano domande sbagliate. Perché in certi posti l’unità di misura non è l’intenzione ma l’azione. Si va a piedi, anche in un posto lontano quindici chilometri, come se si dovesse andare dietro casa. Si va e basta. Il tempo è dilatato.

Da uomo occidentale ponevo l’attenzione sull’arrivare in un posto, sull’intenzione di arrivare a un appuntamento, sul luogo di lavoro, proprio mentre partivo, considerando il tempo una parentesi, un inutile fastidio. La gente che cammina va perché ci deve andare senza curarsi del tempo, del momento in cui arriverà.

In Marocco era così, in Turchia, in questa parte della Turchia, pure. Gente che cammina lungo la strada.

E poi bandiere turche, centinaia di migliaia di bandiere. Sui balconi, sulle facciate dei palazzi, sulle strade, ai distributori di benzina, sui camion, nelle piazze. Ovunque è un tripudio di macchie rosse che sventolano. Avvicinandosi alla penisola di Gallipoli le bandiere, il nazionalismo aumenta. È un luogo particolarmente caro alla storia turca. Perché questa penisola, sullo stretto dei Dardanelli, da sempre è un punto nevralgico per la rotta verso il Bosforo.

Da secoli questa penisola è teatro di guerre e di battaglie aspre e sanguinose. Durante la Prima guerra mondiale da queste parti, in pochi chilometri quadrati, sono morti oltre duecentomila soldati, tra turchi, inglesi, neozelandesi, australiani e francesi, sepolti in una cinquantina di cimiteri. È un posto caro ai turchi perché durante quella guerra, nella campagna dei Dardanelli, Mustafà Kemal ha avuto la sua glorificazione. Ataturk, il padre della nazione. Quello che un tempo fu teatro di terrificanti spargimenti di sangue, oggi è un unico bosco di pini, per chilometri e chilometri, a perdita d’occhio.

Tiriamo per il Sud della penisola. Il Vostok corre sicuro per i boschi. Villaggi, monumenti e siti storici accarezzano il nostro passaggio. Dopo venti chilometri arriviamo sulla spiaggia dove mi trovo adesso, mentre scrivo. Nei pressi di Yliasbaba Burnu. Questo luogo, dal 1915 è chiamato V beach o the bloody beach. Qui per disposizione dei generali comandati da Sir Winston Churchill, primo lord dell’Ammiragliato Britannico, durante un disperato e inutile sbarco morirono più di duemila soldati. Con buona pace di Sua Maestà, la metà di loro era irlandese. Le guerre spesso sono degli ottimi metodi per risolvere problemi interni alle nazioni.

A guardarla oggi sembra che quell’alba dell’aprile del 1915 non ci sia mai stata eppure alle prime luci del giorno i duecento metri di questa spiaggia, costeggiata da un promontorio e da una vecchia fortezza ottomana, si trasformarono in una macelleria. Bloody beach, appunto.

Alcune testimonianze narrano che anche i soldati turchi a difesa della spiaggia, erano increduli e costernati nell’ammazzare così facilmente quei nemici, in quel tiro alla quaglia stupido e insensato. Spesso i mezzi da sbarco arrivavano sulla spiaggia ma non c’era nessuno pronto a sbarcare perché tutti erano morti prima.
Poche decine di quei soldati, dei 696 sepolti qui, in un cimitero di fortuna, hanno un nome, una lapide.

Gli altri nomi sconosciuti sono solo un urlo di dolore, una preghiera, un ultimo pensiero prima di tingere di rosso il mare. Una campagna durata nove mesi, quella dei Dardanelli, in cui gli inglesi non riuscirono a conquistare un centimetro.

E Ataturk, con la malaria e una scheggia di shrapnel conficcata nel suo orologio da tasca, all’altezza del cuore, trasgredendo agli ordini dei suoi superiori e intuendo tutte le mosse degli inglesi, diventò pasa, generale.

A me di fronte alla serenità di un tramonto simile, un po’ di amarezza resta nel cuore. Mi vengono in mente le parole della canzone Us and them, dei Pink Floyd. «Forward he cried, from the rear, and the front rank died…»

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VOSTOK100k
«In tempi come questi, la fuga è l’unico modo per continuare a sognare e mantenersi vivi», scriveva Henry Laborit, nell'Elogio della fuga. Noi ne stiamo facendo una filosofia di vita. Abbiamo comprato questo vecchio camper, ribattezzato Vostok, in onore del nostro collettivo artistico Gagarinmotel e della prima missione umana nello spazio, lo stiamo restaurando e ci stiamo preparando per la madre di tutte le missioni: il giro del mondo. Intanto lo collaudiamo volta per volta. Senza gps ma armati solo di mappe e bussola, col cuore sulla strada e senza preoccuparsi della meta. Siamo l’equipaggio del Vostok100k, Lorenzo Scaraggi e Peppino Guardapassi, viaggiatori. www.vostok100k.com