illustrazione di Yara Costantini
Questa è la terra dove le storie non finiscono mai ma dove probabilmente hanno avuto inizio. Ce lo racconta l’uomo di Altamura, unico esemplare umano adulto (intero) finito non si sa come nella grotta di Lamalunga, rimasto incastrato tra stalattiti e stalagmiti che gli sono cresciute intorno e che lo hanno conservato intatto. Dicono si tratti di un individuo neanderthaliano vissuto più di cinquantamila anni fa.
Questa è la terra dove gli antichi romani costruirono la via Traiana, un prolungamento della via Appia che da Benevento arriva tutt’oggi a Brindisi. Una strada lunga duemila anni, voluta dall’imperatore Traiano per agevolare i commerci con l’Oriente e battuta per tutto il Medioevo dai pellegrini in viaggio verso la Terra Santa.
Fu la terra dei Messapi, l’antica popolazione italica che si stanziò intorno al VII secolo a.C. nel territorio corrispondente alla Murgia meridionale e al Salento di oggi, la Messapia.
Fu la terra di Federico II, Duca di Svevia, Re di Germania, Imperatore del Sacro Romano Impero, conosciuto come stupor mundi, meraviglia del mondo, e ricordato come puer Apuliae, il fanciullo di Puglia. Uomo politico, guerriero, filosofo, architetto, letterato e mecenate, fu colui che volle la costruzione di Castel del Monte, quell’enorme edificio a forma ottagonale, le cui geometrie sono scandite dal sole, che richiama la forma di una corona. Un concentrato di simboli cosmici che ancora oggi fa impazzire studiosi, scienziati e astrologi. Non sappiamo quale sia la verità su questa costruzione, se davvero c’entrino i templari e tutte le leggende a loro associate. Certo è che sulle nostre monete da un centesimo si staglia la sagoma del vecchio castello.
Questa è la terra dove sbarcò Enea, dove i Normanni decisero di vivere e dove i massoni decisero di morire.
Questa è la terra della taranta, dei trulli, dei dolmen e dei menhir, del grano ma soprattutto del mare.
Il numero venti di the trip è dedicato interamente a lei, che trabocca di storia, odora di musica e parla di magia. Apulia, Ἰαπυγία, Púgghie, Puje, Puia, Poulye. Rispettivamente in latino, greco, barese, foggiano, tarantino, salentino e francoprovenzale. Tutto in un’unica regione. Non basterebbe un’intera enciclopedia per raccontare il cosmo che vive nel tacco del nostro stivale. E non sto esagerando.
In queste pagine trovate le nostre storie, quelle di chi ha vissuto visto e toccato le meraviglie e i misteri della terra degli ulivi. E in questa poesia potete provare a sentirla:
A terra meje,
totte nu culore de sanghe seccate da sembe,
chjene de petre de tuttu nu munnu sgarrate
– o pure jòssere de quanda muerte? –
anzieme cu a maledezzione
d’a stese de le pendemare;
sembe a lla ripe d’a vite,
vvruvuggnose come a nnu peccinne
cu a vestezzodda corte d’a sorsa ggià mmorte;
a ll’abbanduene de tutte;
lassate p’a speranze de nu cre sarà cchjù mmegghje…
A terra mea vere, a terra jaspra meje,
c’avaste picca rùzzene d’a zappe
cu ttorne n’ata sarvagge
cu lle vasapiete i lle sccrasce;
a terra c’u coru mije agghjuse,
udiate cu ttuttu u bbene de totta l’aneme,
u sangu mije ambunne.
Ca riumésce amarore de fele,
ca nange jave forze manghe jasce cu ccange,
angandate jind’a morte de ggne ggiurne
come a nna véstia malate sobbe o stagghje
totta lassate a lla tambe i o sulenzie d’u scure.
Pietro Gatti
La terra mia,
tutta un colore del sangue rappreso da sempre,
piena di pietre di tutto un mondo crollato
– oppure ossa di quanti morti? –
insieme con la maledizione
della distesa delle rocce;
sempre sul ciglio della vita,
vergognosa come un fanciullo
con la vesticciola della sorella già morta;
nell’abbandono di tutti;
lasciata per la speranza di un domani forse
migliore…
La terra mia vera, la terra aspra mia,
che basta poca ruggine della zappa
perché torni un’altra volta selvatica
con i baciapiedi e i rovi;
la terra col cuore mio rinchiuso,
odiata con tutto l’amore di tutta l’anima,
il sangue mio profondo.
Che rumina amarezza di fiele,
che non ha forza neppure di mutar giagitura,
attonita nella morte di ogni giorno
come una bestia malata sullo stabbio
prostrata nel tanfo e nel silenzio del buio.
Da la raccolta di poesie in dialetto cegliese intitolata “A terra meje”. Fasano, 1976 edizioni Schena