1° TAPPA
Impiego due giorni di viaggio per arrivare a Derry.
Non mi lascio sfuggire l’occasione di atterrare a Dublino e percorrere in lunghezza l’isola, fino alla “città vergine”, sulle sponde del Foyle River, adagiata sul confine (occidentale) più violento dell’Europa di fine XX° secolo: quello tra EIRE e Regno Unito. Capisco di essere entrata in Irlanda del nord quando i cartelli in doppia lingua (gaelico irlandese e inglese) scompaiono. Ammetto che è bene studiarsi la storia prima di approdare in quella che è stata definita, da più parti, l’unica colonia in Europa: è utile per percepire le sfumature e i linguaggi delle persone, l’architettura degli edifici, gli spazi e i paesaggi.
La città di Derry/Londonderry è l’unica nell’isola a possedere intatta la cinta muraria risalente al XVII° secolo, restaurata e in buono stato. Puoi camminare sulle mura lunghe un miglio ed osservare i dintorni della città, passare all’altezza delle finestre, sbirciare nei vecchi palazzi e conoscere la storia delle mura, bastione per bastione, gate dopo gate, tanto sono ben tenute e descritte attraverso infopoint lungo il perimetro. Il fulcro del centro storico, che nella parte est è costeggiato dal Foyle, è il Diamond, una statua dedicata ai caduti della I° Guerra Mondiale, dalla quale partono le quattro vie principali, ognuna corrispondente ad un gate delle mura, ognuna verso un punto cardinale: Shipquay Gate, Ferryquay Gate, Bishop Gate, Butcher Gate. In qualsiasi punto della città ti trovi hai un campanile di riferimento. Svettano sicuri – protestanti o cattolici non fa differenza – tra le costruzioni della città, grigi e maestosi, quasi come lancette di una bussola. Camminando, a volte hai modo di capire se stai passando davanti una casa protestante o cattolica. Te ne accorgi dai soprammobili esposti alle finestre.
2° TAPPA
St. Augustine e il Bogside
Alloggio di fianco alla St. Augustine Church, “The wee church on the Walls”. Un graziosa chiesa della Church of Ireland, con annesso giardino e cimitero, sul lato ovest delle mura: esci da lì e trovi la collina del Bogside, con le sue case grigie, il campanile di St.Eugene e la strada dove gli Undertones girarono un loro famoso video. Il colle, sembra una foto di James Casebere, sebbene dai toni più spenti. Al lato sinistro c’è il cimitero che sembra un porto di barche, tanto svettano pinnacoli, pali e alberi. Visitare Brooke Park, adiacente alla cattedrale di ST.Eugene è come fare un viaggio soffuso tra grandi viali, aiuole perfette e odore di erba appena tagliata. A tratti, il fruscio degli alberi verdi, mi ha fatto pensare a Thomas. Mi aspettavo una jeep piena di mimi o, non so, di scoprire i resti di un delitto tra qualche cespuglio: la città sembra lontana, proprio come in Blow Up, giri un angolo o attraversi la strada e d’improvviso trovi il silenzio.
Il fiume
Il Foyle è il fiume con le correnti più forti d’Europa, la cui foce diventa un Lough e quindi ingloba le maree del Mare del Nord che ne invertono il corso due volte al giorno. A causa delle pietre scure sul fondo, le sue acque sono violacee e tempestose grazie alle forti correnti, che puoi benissimo sentire se vai ad est ,attraversando il Peace Bridge, verso Ebrington, ex zona militare, oggi in recupero e fermento grazie a coworking e gallerie d’arte. Lungo il fiume, nella sponda ovest, ci sono alcune targhe commemorative e info point: da lì partivano le navi con i migranti, lavoratori verso l’Inghilterra e la Scozia, molti dei quali non tornarono più su quest’isola.
3° TAPPA
Le due sponde
Camminando per Taobh an Phortaigh (‘Bogside’ in gaelico irlandese N.D.R.) osservo le persone: pullman di turisti visitano il quartiere. Se cerchi sul web la città di Derry, il Free Derry Corner è uno dei primi risultati, parimenti ai murales loyalisti dall’altra parte del fiume. Quando ho modo di visitarlo, spicca una dedica per Lyla, la giornalista uccisa dalla New I.R.A. pochi giorni prima il mio arrivo. Alcuni mi dicono che quella scritta così forte, in quel monumento così importante è un grosso indice di quanto la popolazione si discosti da questi gesti.”Not in our name”, c’è scritto.
Il tour dei pellegrini prosegue verso il Bloody Sunday Memorial, accompagnati dai murales sulla via e al Free Derry Museum, dove mi sembra di riconoscere le foto di Clive Limpkin della Battle of the Bogside. I suoni in loop delle manifestazioni sono strazianti. La scritta all’ingresso recita: “chi non combatte per la giustizia qui è uno straniero”. Lascio la macchina fotografica nello zaino e mi limito all’uso del cellulare cercando di raccogliere con esso dei memento: poster, proiettili e camicie insanguinate.
Poi c’è l’altro Bogside (o forse è sempre lo stesso ma il mio sguardo è viziato dalla storia), quello delle mamme con i passeggini, degli operai che aggiustano case, dei pubs e dei fish and chips, che sembrano non accorgersi del “funeral tour”, o forse ci sono abituati. Mi domando, come si faccia a convivere con tutto questo, ci sono io che cammino per strada, intristita, con i rumori del museo, nella mente le immagini dei cortei che proprio in quella strada sono avvenuti, per non citare di peggio, e ci sono loro che svolgono la loro vita. Il senso della mia curiosità si aggrava quando penso di essere nella civilissima Europa e guardo in alto verso le antiche mura e vedo le reti di contenimento a ridosso di esse, in alcuni punti intatte.
Tutto è mònito, tutto è memoria. Vivendo giorno per giorno, penso, avranno superato” la vicenda. Mi raccontano dei locali a Fountain, (il Mem e il pub Paradiso) dove, durante i Troubles, il venerdì sera le persone andavano a passare qualche ora, a svagarsi e sbronzarsi, per poi ritornare camminando per le vie dove stanziavano i militari, vivendo una vita scandita dal coprifuoco. A Fontaine i marciapiedi hanno i colori della bandiera inglese, alcune case sono diroccate e le strade più interne deserte e silenti. “Se ti vedono con la macchina fotografica non ti dicono niente, i turisti sono ben accetti”, ricordo quello che mi dicono quando il senso di inquietudine mi pervade, avendo l’impressione di essere per qualche istante fuori da ogni istante, fuori dal tempo. Penso che vent’anni fa, di contro, camminare come faccio io con la macchina al collo forse non sarebbe stato possibile. Sono sotto il lato est delle Mura, il campo dei Bonfire, nell’isolato adiacente c’è una scuola dove i bambini giocano nel cortile. Svetta la cattedrale di St. Columbus con l’immenso e affusolato campanile. Provo un grande senso di pietà ed empatia.
4° TAPPA
Port Stuart e Port Rush
Vado a nord, lungo la Causeway Coastal Route. Port Stuart Strand è ottimo per assaporare lo spleen di una spiaggia del nord, larga e lunga, costeggiata da muri di basalto, col mare grigio, lattiginoso e sornione. Dopo la linea di sabbia, gli arbusti e i cespugli si estendono a macchie, con punte di marrone e verde scuro. La città sembra un quadro, con le case colorate e i tetti a punta, tutto tace, tutto sembra addormentato. Nel pomeriggio, piovoso e a tratti soleggiato con la luce del nord, ho modo di assistere alla cerimonia di insediamento del nuovo pastore, non prima di aver visitato la locale sala da tè all’inglese (almeno per l’idea che una del sud Europa può avere di una sala da tè all’inglese): credenze, colori pastello e carte da parati vistose, dolcetti e sandwiches con vista mare.
Di Port Rush mi parlano come della “Riccione dell’Irlanda del Nord”. Non lontani dalla riva, scogli e piccole isolette, l’acqua è grigio verde. Sul lungomare ci sono giostrine ma c’è silenzio, a parte la pioggia-non-pioggia, quando cade. The Dark Hedges è quasi impossibile da fotografare visto il fiume di gente che percorre il viale. Non è tanto la prospettiva del luogo ad attrarmi quanto il soffitto, mi viene da dire “degno dei mastri elfici di Re Elrond, o del Bosco d’Oro” anche se lì ci hanno girato Games Of Thrones.
5° TAPPA
Donegall
Il giorno dopo vado in Donegall. Seguo il puntino sul navigatore nell’esatto momento in cui varcò il confine tra i due stati, non è segnalato qui, è una strada di campagna. Mi emoziono, vuoi per tutto quello che ho appreso, vuoi per il momento storico, visto che il confine è questione cruciale degli accordi (o non accordi) per la Brexit. Grianan di Aileach è un forte circolare in pietra dell’Età del Ferro, all’ingresso della penisola di Inishowen. Su un colle, a dir poco ventoso, permette una vista di 360° sul Lough Foyle e sul Lough Swilly.
Verso Buncrana, lungo Lough Swilly apprendo della nascita del famoso inno Amazin Grace, con buona pace per non averlo saputo prima. Un mercante di schiavi fa naufragio lungo quelle sponde e, salvatosi, si converte. L’inno è il suo ringraziamento. Ad est di Fort Dunree la vegetazione è verde e marrone, come di cioccolata e pistacchio. Il forte oltre che il museo militare ospita un bistrot con vista sul Lough, una galleria d’arte e la Wildlife Discovery Room. I ragazzi del centro d’arte gestiscono un delizioso community garden tra le mura in rovina e fanno pure la pizza col forno a legna! In cima a Fort, dopo le baracche di metallo inghiottite dagli arbusti, il senso di vertigine è quasi straniante: se guardi dritto non hai orizzonte, se guardi in basso vedi il blu profondo. L’unica costante tra i due lati dell’isola sono le pecore e il bog. Un’italiana che vive qui mi ha detto: “come fai a tradurre in italiano bog? Il bog non è la brughiera.” Suppongo abbia ragione, noi per bog intendiamo palude ma forse del bog non ne possediamo a pieno il concetto visivo.
6° TAPPA
Leggende
La Repubblica Irlandese è famosa per le sue leggende e miti anche se sembra assurdo che un paese così cattolico annoveri aneddoti pagani, tra le pieghe della sua identità. Mi fanno notare che nel nord queste consuetudini non fanno molto parte del background della popolazione, o almeno di parte di essa. In effetti, sebbene abbia incontrato persone che mi abbiano regalato bellissimi aneddoti mitologici (tipo che il primo re celtico fosse egiziano), di contro, ho parlato con persone che non riuscivano molto a capire cosa intendessi per ‘miti’ e ‘leggende’. Per alcuni il fairytale è esclusivamente roba per bambini. Le mie riflessioni, dovute agli incontri e agli studi in materia, mi lasciano presagire che l’eterna lotta di amore e odio, peccato e redenzione, cantata nelle fiabe irlandesi tra folletti (pagani) e umani (buoni cristiani, che siano penitenti o pii, è lo stesso) non sia altro che la metafora dell’ormai ancestrale diatriba tra cattolici e protestanti.
Ecco, forse, perché chi è di provenienza inglese (più che mai culturale) non sembra annoverare leggende e miti nel suo immaginario, almeno non nel senso “irlandese” che noi del sud Europa attribuiamo a leggende e miti. Mi parlano più volte del pragmatismo della lingua inglese: “attenta a quello che scrivi, sei italiana, usi molte metafore, qui non le capiscono”, allora mi domando che fine abbiano fatto la poesia senza fondo di T.S. Eliot, la rosa e il nome di Shakespeare, per non parlare della lingua di Joyce, poi ad un tratto penso a Seamus Heaney (di cui qui esiste una birra col suo nome), già ammiratore della poesia di Philip Larkin, ed alla sua “Limbo Land”. La sua poesia era metaforica non nella forma, scarna, quanto nel contenuto: dev’essere per questo che gli sono bastate queste due parole per rendere l’idea – e per questo, secondo me, resta imbattuto – di cosa sia l’Irlanda del Nord. Molti di noi, al sud, lo ammetto con un po’ di mestizia, non sappiamo mica che ci sono due Irlande, o forse tre.