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di Federico Marcello Capurso
foto di Thomas Merkle

C’è una lunga fila di uomini sulla riva del lago di Curon, nell’Alto Adige, con i sacchi in spalla e il cappello di feltro nero calcato sugli occhi. Alcuni si trascinano dietro un materasso, altri rimangono immobili a guardare l’acqua, calma e scura, su cui si riflettono le montagne della Val Venosta in quest’ultimo giorno d’estate del 1950. I muli sono carichi di provviste, qualche autocarro è stato messo a disposizione per trasportare i mobili più pesanti, e il rumore dei motori che si accendono con un ruggito secco suona come un ultimo addio. È un esodo inevitabile, quello degli abitanti dei paesi di Curon e di Resia, perché l’acqua a breve sommergerà le loro case. Niente a che fare con le catastrofi naturali. Nessuna esondazione di fiumi, né giornate di pioggia torrenziale. D’altronde è estate. Piuttosto, un’enorme quantità di operai dell’industria Montecatini che si agitano da tempo alla guida di ruspe e scavatrici. Le carte dei progetti indicano la costruzione di una grande diga in terra, la prima in Italia, pronta a intrappolare le acque dei due laghi della valle e a convogliarle in un unico grande lago per fornire energia elettrica alle industrie lombarde. Una questione di soldi e di progresso insomma. Peccato che tra i laghi ci sia una comunità che abita lì da generazioni. Niente di grave. Anzi, tutto è rimediabile per la Montecatini con la costruzione di abitazioni moderne, poco lontane, e pronte ad accogliere gli sfollati. Ovviamente quelle case sono più adatte al clima di Palermo che a quello dell’inverno delle Dolomiti, ma d’altronde è ancora estate e allora di cosa si stanno a preoccupare? Intanto è tornato tra la sua gente Alfred Rieper, il parroco di Curon. È un uomo agguerrito, che ricorda un po’ il Don Camillo di Fernandel, pronto a tutto pur di proteggere il proprio paese. Tanto agguerrito da formare una delegazione di cittadini per protestare davanti alla sede della Montecatini e a ottenere poco dopo un’udienza da Papa Pio XII. Le speranze del viaggio a Roma vengono però deluse. Neanche il santo padre vuole schierarsi contro i grandi interessi economici che girano intorno alle industrie del nord. Così Don Alfred torna a Curon per svuotare la sua chiesa di Santa Caterina, in piedi da oltre seicento anni, ora che l’acqua sta per travolgere tutto.

In quel pomeriggio d’estate vengono sommerse centosessantatre case e quasi settecento ettari di terreno agricolo. Centocinquanta famiglie contadine perdono la loro unica fonte di reddito e la metà sarà costretta a emigrare. L’acqua del nuovo lago di Resia, arrivata al livello prestabilito, si ferma. L’intera Curon e una parte di Resia sono sparite, inghiottite dai flutti, ma dal pelo dell’acqua, a un centinaio di metri dalla riva, svetta l’ultimo segno della loro storia: il campanile romanico della vecchia chiesa. Oggi simbolo della Val Venosta, protetto dalle Belle Arti e ricercato dai turisti che lo guardano con occhi romantici, il campanile resta nella mente di Don Alfred il simbolo di un dramma per la sua comunità ma anche dello spirito di resistenza di quella gente, della loro speranza e della loro forza. Così mi ritorna in mente il discorso di Don Camillo di fronte a una situazione analoga alla nostra, quando le acque del Po esondarono nel 1951 allagando i vicini paesi: “Un giorno le acque si ritireranno e il sole ritornerà a splendere. Allora, ci ricorderemo della fratellanza che ci ha unito in queste ore terribili e, con la tenacia che Dio ci ha dato, ricominceremo a lottare, perché il sole sia più splendente, perché i fiori siano più belli e perché la miseria sparisca dalle nostre città e dai nostri villaggi. Dimenticheremo le discordie e quando avremo voglia di morte cercheremo di sorridere. Così tutto sarà più facile, e il nostro paese diventerà un piccolo paradiso in terra”.

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