di Ilaria Giannini
illustrazioni tratte dal libro David Lazzaretti di Francesco Bardelli, Editore del Grifo
La seconda volta che saliamo sul Monte Labbro è un sabato mattina di metà novembre e per poco il freddo non ci fa tornare indietro. Non ci siamo coperti abbastanza contro la nebbia, questa spuma densa che si sprigiona dalle pendici della montagna e avvolge il cono calcareo.
La cima è uno scoglio lontanissimo, affogato in una tazza di latte.
«Non è così alto, l’Amiata è quasi il doppio».
«Sì ma laggiù almeno il cielo è sgombro».
Ci lasciamo alle spalle la campagna ripulita dal vento e iniziamo la nostra immersione in salita: la terra è dura e friabile, si sbriciola ad ogni passo. In un recinto due asinelli stretti l’uno all’altro ci seguono con lo sguardo, finché non spariamo dietro la curva. Stiamo girando in tondo: il sentiero che inquadro nella digitale è una parabola flessa.
«Ma Lazzaretti come fece a convincere la gente a venire a vivere quassù?»
«A valle c’era la malaria e poi erano tutti poveracci, contadini senza terra, pastori, un esercito di straccioni».
«Un profeta che parla maremmano avrei proprio voluto sentirlo».
Ridi eppure non c’è niente di divertente, è solo il dramma dell’Italia populista che si ripete all’infinito. Viene un David qualunque a raccontarvi di essere il secondo Cristo e siete tutti pronti a seguirlo, a salire in vetta, mettere in comunione i vostri beni e fondare una nuova società. È solo un barocciaio ma sa alzare la voce a sufficienza e si presenta con una faccia non troppo diversa dalla vostra. Anche io vengo dalla montagna, ma sulle Apuane ci nascondiamo nei boschi per fottere l’autorità, non per abbracciarne un’altra.
Avevo provato a dirtelo anche la prima volta ma c’è sempre questo problema delle parole tra noi, che sembrano perdere forza e significato nel tragitto, che sono subito pronte a trasformarsi in qualcos’altro. Sotto la calura di luglio mi avevi raccontato del vostro santone e io non ero riuscita a replicare niente, mentre il sole andava a stanare ogni dettaglio della vostra campagna, erosa dalla siccità, e quel sapore bestiale d’erba secca si infiltrava sotto le ascelle, mi riempiva la bocca.
Mi manca quasi adesso, mentre dietro la cortina di nebbia vedo allargarsi finalmente la radura per cui siamo venuti fin qua, lo spiazzo dominato dalla campana e dalla croce: il monumento alla religione giurisdavidica si staglia oscuro contro l’orizzonte lattiginoso, di fronte ai ruderi della torre e all’ingresso della cappella sotterranea, che dal 1870 ad oggi non è mai crollata.
«Se ci pensi è un miracolo che il soffitto non sia mai venuto giù mentre c’era dentro qualcuno».
«Fermo lì, questa mi viene come si deve».
Premo il pulsante una decina di volte, cambiando appena angolatura, inclinando la macchinetta a caso, mi metto in ginocchio per farci entrare più cielo, per prendere tutto quello che posso di questo spazio bianco che ci sovrasta.
Sul prato qualcuno ha disegnato una spirale fatta di pietre, ti fotografo mentre le guardi per trattenerti dall’avvicinarti troppo, per tenerti dal lato giusto di questa storia, dal lato di chi osserva e basta, di chi non interferisce.
«Questo posto mi fa paura».
«Ma sei stata te a volerci venire».
«Volevo vedere se mi faceva paura anche stavolta».
Conosco quel sorriso che ti metti addosso, ricordo persino che un tempo mi piaceva, che lo trovavo confortante, solido nella sua prepotenza. È un sorriso che adesso mi fa pensare ai fondali del mare, alle rocce friabili, a tutto quello che succede non appena voltiamo le spalle, ai mondi che vivono nell’istante in cui guardiamo con la coda dell’occhio l’angolo della strada dove abitiamo.
Ti inabissi sotto la volta della cappella e io capisco che non verrò sotto con te, non oggi. Non sopporterei di ritrovare gli stessi fiori bianchi di allora, intatti e smisurati dentro il vasetto di vetro. Avrei giurato che fossero orchidee, se avessi saputo immaginare la mano che le aveva deposte su quell’altare che non vede mai la luce.
Ho i capelli bagnati, la digitale cerca di sfuggirmi dalle dita. Quattro mesi fa mi ero seduta a guardare le alture che si rincorrono, a vedere i soffioni di Santa Fiora sbuffare tra un dosso e l’altro. Mi piacerebbe posare lo sguardo un’ultima volta sui campi pettinati dai trattori, sulle spighe di grano che ciondolano nel vento. Ma non si vede nulla, non c’è più nulla. Sul Monte Labbro non è rimasto niente per me.
Ilaria Giannini, nata nel 1982 a Pietrasanta, vive e lavora come giornalista a Firenze. Ha pubblicato due romanzi: Facciamo finta che sia per sempre (Intermezzi 2009) e I provinciali (Gaffi 2012).
http://www.intermezzieditore.it/
http://www.gaffi.it/cgi-bin/front_end/libri?id=2179