di Francesca Tilio
Lanzarote è il titolo di un libro di Michel Houellebecq che lessi più di dieci anni fa. Non fu tanto la storia, quanto le fotografie che occupavano la seconda metà del libro a permettere al tarlo di entrare nella mia immaginazione. Quell’isola era un pianeta lontano, aveva i colori della lava raffreddata, delle cortecce, delle piante grasse e il mare si scontrava impetuoso contro questi elementi.
Ho sempre pensato a Lanzarote attraverso quelle immagini e l’ho vagheggiata come un posto ameno e selvaggio, pronto per essere fotografato. È arrivata l’ora di raggiungerla, perché questa è la nostra occasione d’incontro. Dall’alto sassi neri e mare, montagne brulle e paesi bianchi. L’isola è la nostra casa, bianca di calce con gli infissi verdi, come tutte le altre. Un’urbanizzazione che azzera le differenze di classe. Ogni casa è bianca con gli infissi verdi.
La nostra è appoggiata sulla terra nera e la grande veranda si affaccia sul mare, distante solo pochi chilometri. Intorno c’è una vita quieta, discreta, abituata a ritmi guanci. Abbandoniamo gli orpelli e ci lasciamo attraversare da quel vento nuovo e incessante che ci abitua all’imprecisione. Siamo io, il mio compagno e nostra figlia di tre anni e mezzo e la questa fuga, breve e desiderata, ha il sapore delle aspettative che ci siamo creati in questi mesi.
Diamo il benvenuto all’isola visitando il tradizionale mercato della domenica di TEGUISE e consumiamo, in un baracchino, il primo pasto a base di paella e tortillas.
Il mercato porta i segni di un turismo che non ha stagioni e quel sole africano sembra ricordarti che l’estate, lì, non finisce mai.
Si arriva a PLAYA PAPAGAYO dopo un po’ di strada sterrata da percorrere in auto. Sotto le rocce brulle si apre un’insenatura d’acqua fresca e trasparente, riparata dalle correnti che investono tutta l’isola. La vista è bellissima e ti invita a percorrere a piedi quel piccolo sentiero che arriva alla spiaggia. Poi, una passeggiata in salita, nella roccia che sovrasta il Papagayo, si scorge un lembo di sabbia meno frequentato. CALETA DEL CONGRIO è una spiaggia naturista, lunga, scoperta ai venti e battuta da acque agitate. Vale la pena vederla perché la sua bellezza selvaggia è disturbata dal solo rumore del vento. Il pubblico siede con la schiena dritta e lo sguardo rivolto verso al mare, come ad aspettare un segnale.
La bellezza di Lanzarote è nelle cavità naturali create dalla lava del vulcano e dalle possibilità che l’uomo ha avuto di rimaneggiarle nel rispetto della propria natura. JAMEO DEL AGUA e CUEVA DE LOS VERDES ci inghiottiscono nella terra e hanno un fascino misterioso e oscuro stratificato nel tempo. Camminare all’interno della terra e farsi guidare dai colori della sovrapposizione dei materiali è un’esperienza molto affascinante. In ogni luogo echeggia il nome di César Manrique, un artista poliedrico che ha plasmato spazi e materia nel rispetto dell’ambiente. Fu lui che convinse gli isolani a investire nel turismo senza snaturare il carattere vulcanico dell’isola. È opera sua anche lo splendido JARDIN DE CACTUS, a Guatiza, un’opera che dialoga perfettamente con l’ambiente circostante.
Il PARCO NAZIONE DI TIMANFAYA è stupefacente. Proprio qui ritrovo le sensazioni che mi regalarono le foto nel libro di Houellebecq. Il vulcano, l’asprezza della terra e delle montagne che lo circondano sono straordinari. Una terra silenziosa, dove la polvere vola continuamente e il calore sale fino a noi, con fiotti di vapore e vampe d’aria bollente. Quell’immobilità superficiale è apparente, sotto di noi non c’è sosta.
Le strade nere di asfalto si sposano perfettamente con l’isola. Le attraversiamo ancora e raggiungiamo EL LAGO VERDE (El Golfo), dove il vento fa volare i cappelli. Le isolane invece indossano quelli tipici, bellissimi, legati al mento con un laccio nero. Sono dame di un romanzo dell’ottocento. Le saline, le scogliere, l’isola de LA GRACIOSA, piccola e selvaggia, che si apre agli occhi quando se ne vanno le nuvole. Qui le nuvole corrono e corrono, incessantemente, e proiettano ombre che sembrano ragni giganti e ogni foto che scatto nella stessa direzione è sempre diversa. I gialli e i rossi della terra, diventano grigi, marroni, rame. È strano come quest’isola sembri così pacifica e arrabbiata allo stesso tempo.
Scegliere Lanzarote come meta di viaggio vuol dire abbandonarsi alla possibilità di poggiare realmente i piedi su una terra che non è solo mare. La spiaggia di FAMARA è maestosa e potente, attraversata dal vento costante, dalle nuvole veloci e dai tanti serfisti che sembrano aver trovato qui l’energia di cui hanno bisogno. Io sono loro mentre li fotografo, in equilibrio, fradicia, affaticata, fiera.
Prima di lasciare l’isola scopriamo la nostra spiaggia. PLAYA QUEMADA è scabrosamente bella, con quelle case bianche e popolari, minuscole, che le fanno da foyer. Il mare è trasparente e vivo, i pesci ci nuotano attorno e non c’è niente più bello che sentirsi protetti dalle scogliere alla nostra destra. Salutiamo Lanzarote con una birra e un polpo grigliato affacciati alla terrazza naturale di uno dei due ristoranti di playa Quemada. Il sole è pigro e tarda a scendere dietro la roccia, ma sta facendo brillare tutto quello che incontra sotto di sé. L’acqua, la barca piena di ragazzini del posto che cantano sfacciati, i capelli di quelle due bambine che da ore cercano sassi sulla spiaggia, che si bagnano e godono di una libertà che è la nostra, propria di quell’attimo perfetto, del “poco prima” che il sole stia per calare. Ecco dove abbiamo lasciato Lanzarote, in quella luce che ci ha attraversati, che ha oltrepassato il bicchiere e si è posato sulla nostra pelle. Ho ritrovato nel viaggio e nella natura l’essenza di quelle foto di Houellebecq, ho riconosciuto le rocce, i segni dell’acqua, della lava e del vento. Torniamo a casa e dall’aereo scorgiamo la spiaggia accanto all’aeroporto, quella dove gli aerei sono, a tutte le ore del giorno, nostri compagni di bagno e ci facciamo trasportare dal vento verso casa, quel vento che ormai ci è entrato dentro e che ci mancherà tremendamente.