Nato nel 1986 come falò estivo per una ventina di persone sulla Baker beach di San Francisco, dal 1991 il Burning Man si è spostato nel deserto del Nevada dove ogni anno, tra la fine di agosto e gli inizi di settembre, si erge una città temporanea che vive solo per otto giorni e che nell’ultima edizione ha contato più di 60.000 partecipanti. È la città di Black Rock City.
Il Burning Man è sicuramente una comunità divisa in quartieri autogestiti, ma è anche una mostra delle arti a cielo aperto, una discoteca ininterrotta, un lunapark, forse un’allucinazione. A dire il vero qualsiasi definizione dell’evento risulta periferica.
C’è un documentario che può aiutarci a capire, o meglio, a vedere cosa sia questo festival dove arte, musica e ogni tipo di espressione creativa si fondono per generare una performance in continua evoluzione, in cui scompare la dimensione individuale per lasciare posto unicamente a quella collettiva, quasi a ricordare i grandi raduni hippie degli anni Sessanta.
A Burning Dream di Massimiliano Davoli ci fa vedere l’inimmaginabile. Come un Alice in Wonderland al maschile, Davoli ci porta in un viaggio ai limiti della realtà, tra installazioni gigantesche, veicoli mutanti, giochi pirotecnici, e tanta tanta sabbia.
Cos’è A Burning Dream?
A Burning Dream non è un documentario nel senso classico. È piuttosto una documentazione che ho fatto di una serie di eventi.
Dopo la morte di un mio carissimo amico sono stato colto da uno di quei momenti in cui sei preso dalle domande sul senso della vita, in cui ti chiedi qual è il senso di ciò che ci circonda: viviamo, lavoriamo, ci affanniamo e poi tutto può finire da un momento all’altro. È stato in quel momento che ho deciso di intraprendere il viaggio verso il deserto del Nevada. Un viaggio che parte da Roma fa scalo a Londra e San Francisco prima di raggiungere Black Rock City.
Nei primi 10 minuti del tuo documentario chiedi alle persone che incontri qual è la loro idea di mondo perfetto.
Prima di arrivare al Burning Man ho fatto alle persone che ho incontrato questa domanda. Tutti mi hanno parlato di un mondo perfetto basato sull’arte, la libertà di espressione, dove non esistono i soldi, che i soldi rovinano tutto. Ho chiamato questo mondo A Burning Dream, perché non può essere che un sogno un mondo così. Un sogno che al Burning Man riesce a diventare realtà. Ma che dura il tempo di 8 giorni.
Al Burning Man infatti non circolano soldi.
Tra i dieci comandamenti del festival c’è quello del gifting. Tutto si basa sulla gift economy, sulla regola del dono. Se doni qualcosa non devi aspettarti niente in cambio. Questo assieme al senso di solidarietà umana, alla radicale libertà di espressione fanno del Burning Man quello che più si avvicina all’idea del mondo ideale. Anche se ovviamente non lo è.
È impossibile dare una definizione all’evento. Tu che idea ti sei fatto?
Per me il Burning Man è una perfetta esemplificazione di comunità e libertà. È un vero e proprio movimento di controcultura come è stato il ’68. Il popolo del Burning Man, i burners, è così che si chiamano, sono i figli dei figli dei fiori. Sono loro alla base dell’organizzazione. Tra di loro non ci sono solo artisti, hipster, frikkettoni. Tra i burners si nascondono i ceo di google, i maxi manager della Apple, il fior fiore della New Economy californiana. Li vedi al Burning Man tutti mascherati e non ti sembra possibile. È gente che è riuscita a coniugare uno stile di vita alternativo con una concezione del mondo molto aperta e con una professionalità elevatissima. Questi sono gli autoctoni, i burners americani. Poi c’è gente che viene da tutto il mondo.
Dopo gli 8 giorni di festival cosa succede alla città di Black Rock City?
Della comunità, della mega tendopoli, delle installazioni, dei veicoli mutanti, non rimane più traccia. Alla fine degli otto giorni viene dato fuoco all’enorme fantoccio di legno a forma di uomo che guarda dall’alto il Burning Man. È da lì che viene il nome dell’evento. L’ultimissima cosa che prende fuoco è il Temple, una specie di memoriale dove tutti portano qualcosa. Un padre ad esempio ha portato le ceneri del figlio. Io ci ho portato una foto di Mirko. È lì che gli ho dato il mio ultimo addio.
Senza una vera produzione alle spalle come avete fatto ad avere i permessi per girare?
Mi mandarono una email nella mezzanotte in cui scadeva la dead line per la conferma al progetto in cui Andy, una ragazza che si occupava delle selezioni, mi scrisse che pur continuando a non capire bene che cavolo di film volessi fare, per l’amore e la passione dimostrati, approvava il progetto.
Nel deserto ci sono 50 gradi di giorno e 4 di notte. Chi va a girare lì ci va attrezzato. Nell’area dei media eravamo io con due miei amici e Discovery Channel. Noi in un furgone di traslochi con una telecamerina che cercavamo di proteggere dalla sabbia e accanto questo camper super attrezzato con le parabole, le steady-cam, i droni.
Un grande sforzo è stato fatto per la post produzione.Un lavoro durato tre anni e mezzo, nel quale mi sono trovato a collaborare con professionisti molto impegnati che però io non potevo pagare, quindi è stato una continua corsa tra gli incastri dei loro tempi liberi. Per il sound design ha collaborato con me Mirko Perri della società InHouse, che ha curato il sound della Grande Bellezza di Sorrentino mentre alla post video la Noise Video di Michele Fuccio. Per non parlare del montaggio che ha visto me e Dario Jurilli seduti in una stanza buia per un anno. Il materiale che avevamo a disposizione era così variegato che è stato come ricavare una statua da un enorme pezzo di marmo bellissimo già nel suo stato grezzo.
Ora con Mimesi’s Culture di Alberto Dandolo, rappresentante del documentario, siamo arrivati al film market del Festival di Berlino e a giugno scorso abbiamo partecipato alla 21esima edizione del Festival Cinemambiente di Torino. Dovremmo avere presto un prima internazionale in un festival all’estero.
Quali saranno gli step futuri del documentario? Quando e dove potremo vederlo?
Sempre tramite Mimesi’Culture stiamo avendo accordi per uscire on demand da settembre su alcune piattaforme on line molto conosciute ma di cui ancora preferisco non dire il nome. Il 26 luglio il documentario sarà proiettato al Cinema Festival dell’Audioriver music festival in Polonia, un evento musicale che vanta nomi della musica elettronica come Trentemøller, Jeff Mills, Richie Hawtin e un’affluenza di 150 mila partecipanti.
Consigli per i trippers che vogliono andare al Burning Man?
Innanzitutto il biglietto per il festival si compra online, ed è meglio farlo mesi prima anche perché si finisce per non trovarlo.
Poi per chi decide di andare al Burning Man non pensi in termini di viaggio vacanze. Il deserto non è un ambiente ospitale. Se ti cade un torsolo di mela ce lo trovi l’anno dopo. Non esistono batteri, non c’è vita, sei disidratato, ti si spezza la pelle, e soprattutto le tempeste di sabbia non ti danno tregua, fai fatica a respirare.
Quando sei là diventi un elemento del deserto e le tue necessità cambiano. Devi pensare alla tua sopravvivenza quindi fare scorta di acqua e cibo prima di arrivarci. Il furgone con cui siamo arrivati era invivibile. La piccola tenda che avevamo montato è stata distrutta da una tempesta di sabbia. C’è chi ci va in camper, ma è un’opzione costosa. L’ideale è avere un Dohm, una struttura tendenzialmente bianca a forma di cupola. Meglio in gruppo perché anche questa costa. Che poi la verità è che stai sempre in giro. Black Rock City è grandissima. In otto giorni non riesci a vedere più del 40% della città.
Io giravo a piedi e in bicicletta. Dormivo dove mi capitava. Mi fermavo nei theme camp della città. Sì perché la città è divisa in settori con dei campi a tema. Ogni anno gli organizzatori del Burning Man scelgono un tema. Chi vuole presenta un progetto grafico del camp a tema che vorrebbe realizzare e che si finanzia autonomamente. Sono centinaia e vanno dall’argomento musicale, qualsiasi genere intendo, dal rock alla classica, a quello sessuale, dal camp di yoga a quello di masturbazione tantrica o del tiro con le uova.
Progetti futuri?
Il cortometraggio Giro di giostra con Michele Riondino e Tea Falco prodotto dalla Kino Produzioni di Giovanni Pompili che si girerà nel prossimo aprile in Puglia. Anche questa una storia di ricerca del proprio io.