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di Francesca Rosati

Il traffico della mattina, la ricerca del parcheggio, le decine di marche di cereali sugli scaffali dei supermercati, il cellulare di ultima generazione che viene superato da quello di ultimissima generazione, gli iPod, iPhone, iPod touch, iPad, le abbreviazioni negli sms che hanno stravolto la comunicazione, quella vera. Le luci al neon dei negozi che si susseguono in una gara senza limiti, le centinaia di mete possibili per le vacanze estive, i gruppi pop che durano una stagione e hanno un nome già sentito, le tette siliconate, gli zigomi gonfi, i nasi alla francese e le labbra come canotti. Si può scegliere sempre, cambiare ogni cosa, anche noi stessi. Anzi, la società dei consumi ce lo impone. E così sempre più spesso viene la voglia di mollare tutto, alla ricerca di una vita più semplice, lontana dal consumismo sfrenato, possibilmente immersa nella natura. Ma anche lì non è tutto facile.

Tobias Jones (classe ’72) è uno scrittore e giornalista inglese che ha vissuto a lungo nel nostro Paese. Dopo aver pubblicato “The dark side of Italy” (“Il cuore oscuro dell’Italia”), ha visitato diverse comuni d’Europa in un viaggio durato un anno, seguito dalla moglie Francesca e dalla piccola Benedetta, la primogenita, e ha raccolto i suoi racconti in “Utopian Dreams”. Ma non gli è bastato. Da più di un anno porta avanti un progetto radicale e gestisce una “casa famiglia” nei boschi del Somerset, in Gran Bretagna.

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Cosa ti ha spinto a partire per un viaggio attraverso le comuni d’Europa?

La natura sottile, pacchiana, gracchiante e temporanea della vita moderna. Vivere rincorrendo la cosiddetta “fine della storia” in cui sembra che nessuno abbia una risposta critica al modello di questo capitalismo individualistico e hard-core. Volevo cercare delle alternative. L’altro motivo, credo, è stato il mio interesse per la nozione del sacro, la curiosità di scoprire se, quando la religione è il coreografo di una comunità, il luogo funziona meglio di quando il coreografo è il nostro tanto decantato secolarismo.

Nel tuo libro “Utopian Dreams” sostieni che chi vive insieme, ed è soggetto a regole comuni, gode di una libertà che chi vive isolato si sogna. Perché?

La libertà da cui siamo ossessionati in Occidente non è libertà ma schiavitù. Siamo tormentati dall’avere sempre una scelta, senza renderci conto che questo significa non poter mai prendere una decisione, che può sempre essere battuta da un’altra decisione. Nulla è permanente o duraturo. Vogliamo mobilità, e così non mettiamo mai le radici. Vogliamo appartenere a tutto, e così perdiamo qualcosa di molto più importante: l’appartenere ad una cosa sola. Nella vita delle comunità si fanno scelte che possono essere a lungo termine o addirittura permanenti; si rinuncia ai possedimenti; si trova l’appartenenza e il significato, e tutto questo è liberatorio. E con la divisione del lavoro si ha più tempo: ci si prende cura l’uno dell’altro invece di provare a fare tutto da soli.

Ma l’appartenenza a un posto isolato dal resto del mondo non rischia di avere un effetto boomerang sulla propria libertà?

Certo: le comunità possono spesso diventare dei ghetti, dei luoghi di evasione presuntosi ed esclusivi. Possono voltare le spalle al mondo invece di prenderne parte. E poi ci sono fattori più semplici come l’attrazione fisica o la repulsione, il fatto che alcune persone sono irritanti o non hanno un buon odore! I soldi, il sesso e la pulizia sono gli ambiti in cui le comunità falliscono sempre. Bisogna avere livelli più altri di tolleranza rispetto a quando si vive da soli.

Quali sono i pregi e i difetti invece della “casa famiglia” dove hai deciso di vivere nei boschi della Gran Bretagna

Pregi: la gioia di conoscere davvero le persone, di vivere e lavorare al loro fianco. Cercare di aiutare le persone in crisi a superare la crisi e trovare una via d’uscita. La felicità di osservare i bambini che studiano le piante e gli animali. Il fatto che una mano invisibile faccia le pulizie, o accenda il fuoco, o cucini i pasti. La sensazione di star facendo qualcosa di molto semplice ma, speriamo, di anche piuttosto sacro. L’eccitazione dell’avventura di ogni giorno con ospiti inaspettati che vanno e vengono.

Difetti: la mancanza di privacy e di spazio personale. Vivere con persone con le quali non si sceglierebbe altrimenti di abitare. L’incredibile quantità di lavoro da fare. Il fatto che le persone si presentano aspettandosi una comune quando, in effetti, è più una casa famiglia. Le difficoltà economiche. I tanti, tanti, tanti pregiudizi e preconcetti su quello che facciamo.

La natura è predominante: come cambia la qualità della vita?

Siamo convinti che una delle cause principali della depressione epidemica del mondo moderno è la separazione dell’uomo dalla natura. Non si vivono più le stagioni, non si è più collegati con il carburante con cui si scaldano le stanze o con il cibo che è nei nostri piatti. Vivere in prossimità con la natura rende la vita molto più ricca, è più difficile ma tanto gratificante.

Nella vostra “casa” date spazio alla riflessione, alla meditazione, al silenzio?

Siamo una casa cristiana, che offre ospitalità cristiana a tutti senza distinzione di fede o di razza. Ci riuniamo nella nostra chiesetta tre volte al giorno e, di queste, due le passiamo in silenzio. Un silenzio che ci dà pace e privacy, che unisce invece di dividere come fanno le parole. Alcune persone pregano, altre contemplano o meditano. Ci dà ritmo e serenità. Il senso di quello che stiamo facendo qui è più importante del nostro stesso benessere.

Hai preso spunto dal tuo viaggio nelle comuni per creare questo nuovo mondo?

Abbiamo imparato che una comunità ha bisogno di un leader più che di una dozzina di persone che meditano per avere una risposta, e che devi avere delle regole semplici e chiare (siamo una casa “asciutta”, nel senso che non è permesso l’alcol visto che qualche ospite sta combattendo la dipendenza). Ma la cosa più importante che abbiamo imparato è che una comunità esiste solo quando ha uno scopo, se serve a qualcosa oltre che a sé stessa. E si evita di trasformarla in un ghetto se c’è sempre posto per gli  imbucati.

Progetti per il futuro?

Speriamo di convertire un altro fabbricato annesso in modo da creare più spazio per gli alloggi quest’estate. Vogliamo costruire una chiesa di balle di fieno e una sauna di legno, creare uno stagno e mettere su un orto. Abbiamo piantato trecento alberi quest’inverno, e ne abbatteremo parecchi per scaldarci il prossimo inverno. Stiamo cercando di produrre il prosciutto di Parma dai nostri maiali, visto che Francesca è di Parma! Costruiremo un bagno compost all’esterno e un forno di mattoni per la pizza. Stiamo iniziando una piccola industria con delle sedie fatte in casa. Ce n’è da fare!

Insomma, un’esperienza forte e un viaggio dentro sé stessi.

Ho sempre pensato che si possa sperimentare una vera avventura anche stando a casa e dicendo al mondo che la tua porta è aperta. È quello che abbiamo fatto e in un certo modo, dopo anni di viaggi, siamo noi ora ad accogliere i viaggiatori e i viandanti. Stiamo imparando a offrire ospitalità, riposo, scoperte, pace. E questo è un viaggio per noi, vedere il mondo stando a casa, con il bisogno di mettere le radici più che di non averne.

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Francesca Rosati
Caporedattore di the trip magazine dalla prima uscita (2010), dopo la laurea in Scienze delle Comunicazioni consegue un master in Scrittura Cineradiotelevisiva allo IED di Roma e lavora alla Saatchi&Saatchi per due anni. Innamorata della scrittura in tutte le sue forme, ha una particolare ossessione per la virgola.