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di Claudia Bena

Giorgio Di Noto ha osservato gli avvenimenti della Primavera araba attraverso televisione e web.Ha poi decisodi dare una forma a quelle immagini, scattando con la sua polaroid, con pellicola impossible in bianco e nero, fermi immagine da singoli eventi. La sua è una descrizione artistica di episodi che si stanno svolgendo vicino a noi e che ci coinvolgono tutti. Con questo progetto ha vinto il premio Pesaresi 2012 di fotogiornalismo.

Nato a Roma nel 1990, Giorgio Di Noto ha studiato fotografia al Centro Sperimentale di Fotografia A. Adams di Roma e ha imparato le tecniche di camera oscura studiando e lavorando con alcuni stampatori professionisti in Italia. È studente di Filosofia all’Università La Sapienza.
Vive e lavora a Roma.
giorgiodinoto.com

 

Come nasce il progetto “The Arab Revolt”?

Inizialmente stavo lavorando separatamente su quelli che poi sono diventati i due aspetti principali del progetto: da una parte studiavo e sperimentavo diverse tecniche fotografiche analogiche in rapporto alle immagini virtuali che vediamo attraverso uno schermo. Volevo riportarle, attraverso la fotografia, a un livello concreto e oggettuale, concentrandomi sulle caratteristiche di questo passaggio. Dall’altra seguivo con estremo interesse gli eventi della Primavera araba, con particolare attenzione alle novità che si stavano delineando a livello mediatico. Già dall’11 settembre il materiale prodotto dai semplici cittadini e protagonisti degli eventi aveva acquisito importanza fondamentale nella comunicazione e nell’informazione. Con le nuove tecnologie e l’avvento dei social media, questo aspetto è diventato sempre più importante, fino a risultare, in particolare nella Primavera araba, addirittura determinante: spesso proprio a causa dei video e delle foto diffuse via web, il giorno dopo scoppiavano proteste e manifestazioni. Prendendo spunto dall’importanza che questo materiale diffuso su internet stava avendo, ho deciso di concentrarmi su questo aspetto, rappresentando in qualche modo quella sovrapposizione che si era venuta a creare tra documentazione e testimonianza. È diventato anche uno spunto importante per riflettere sul ruolo delle immagini e del fotogiornalismo, e sulla natura documentaria della fotografia. Il progetto è iniziato quando tutte queste cose hanno cominciato a funzionare insieme.

Cosa pensi del fotogiornalismo nell’epoca dei nuovi mezzi di diffusione delle immagini e di comunicazione? E della fotografia in generale nell’epoca del digitale?

Penso semplicemente che si debbano interrogare sul proprio linguaggio e sulla propria funzione. Il digitale è un mezzo incredibile, con potenzialità interessantissime. È vero anche che dà l’illusione di una maggiore accessibilità al mezzo. Quando questa consapevolezza manca smette di essere interessante. Ma questo in realtà è sempre accaduto, il digitale in sé c’entra poco. È solo un mezzo come tanti altri. La fotografia è linguaggio, è rappresentazione. Non mostra la realtà così com’è, non ne coglie in nessun modo la verità, a patto che la verità esista.

A cosa è dovuta la scelta di non inserire nel loro tempo e spazio gli scatti, dando semplici numeri alle singole foto?

Per lo stesso motivo per cui ho voluto dare un titolo il più possibile generico al lavoro. Non sto raccontando un evento in particolare, non sto aggiungendo nulla rispetto a quello che già si sa della Primavera araba o della guerra. Il lavoro è più sull’immaginario della fotografia di guerra, sulla sovrapposizione che oggi abbiamo tra documentazione e testimonianza, sulla necessità di essere o non essere lì. Insomma le didascalie non avrebbero aggiunto nulla di più.

Cosa ne pensi delle critiche mosse dal mondo della fotografia all’assegnazione del Premio Pesaresi 2012 al tuo progetto?

La vittoria al Pesaresi è stata una sorpresa, veramente inaspettata. Tanto che sono arrivato il giorno dopo la premiazione, visto che mai avrei potuto immaginare quello che era successo. Sono ovviamente contentissimo, la massima aspirazione per questo progetto era vincere un premio di fotogiornalismo. Nel momento in cui le critiche portano alla nascita di una discussione e di un confronto, sono il primo a essere contento. In un certo senso era lo scopo stesso del progetto e penso sia l’ambizione di qualunque fotografo o artista generare un dibattito col proprio lavoro. Poi ovviamente ci sono molte tante critiche inutili, alcune offensive, ma è normale che sia così. Sono talmente tante le questioni sollevate, che ci vorrebbe la rivista intera per rispondere a ciascuna.

Continuerai a lavorare su questo progetto, o hai altre idee per il futuro?

Nonostante le Primavere arabe restino un tema che sto ancora indagando, quella serie, in quella forma specifica, è conclusa così. Quello che non è concluso è il lavoro e la riflessione sulle immagini, sul loro rapporto con il tema della documentazione e della produzione/diffusione dimateriale visivo. Così come la sperimentazione di diverse tecniche fotografiche, in relazione a questi contenuti, rimane un punto centrale. Oltre a questo sto lavorando in Sicilia a un progetto sul rapporto tra l’uomo e il paesaggio.

What you see here, caught in your night defences

These steel and glass cocoons for killing people

With tons of bombs, are just the consequences

For all, and not the causes of the evil.

Bertold Brecht

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