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testo di Fulvio Benelli e Fabio Di Genova
foto di Lorenzo Giordano | lorenzogiordano.com

Viaggio nella città dove si muore per l’ultima volta. Dal tramonto all’alba, sulle rive del Gange, afferrati da un’esperienza indelebile che illumina la vita. Del suo senso più recondito.

Ci sta aspettando, Benares. Ci è venuta persino incontro, per prepararci all’impatto. Siamo sulla banchina dell’affollata stazione ferroviaria di Agra, duecento chilometri a sud di Nuova Delhi. Un luogo profondamente diverso dai comodi scenari dove entrambi siamo cresciuti. Quando arriva il convoglio, avvolto in un cappotto di fumo antracite, proviamo timidamente a farci largo, subendo gli spintoni dei paria che bisticciano chiassosamente per accaparrarsi gli ultimi sedili. Appena il tempo di posare gli zaini nella cappelliera e lei si siede accanto a noi. Il corpo, sinuoso ed elegante, adagiato sulle spalle dell’uomo che la accompagna. È giovane, s’intuisce dalla lucentezza delle mani. Un fazzoletto le copre il volto; i piedi sono nudi, perché non è previsto che cammini, mai più. È morta. Stanno trasportando il suo corpo a Varanasi, dove le ceneri saranno disperse e la sua anima liberata per sempre dai lacci della carne. Senza guardarci, alziamo gli occhi e lasciamo lo sguardo vagare nello scompartimento. Ci sono corpi senza vita ovunque. Una qui, l’altro là. Come se addormentati, in vista del lungo viaggio. L’accompagnatore che ci siede di fronte, un ragazzo sulla trentina, porta un abito bianco. Quando un hindu muore, una riunione di famiglia decide chi trasporterà le spoglie del caro estinto. Il designato si congeda dal lavoro, si rasa il cranio e inizia un periodo di digiuno e preghiere. Poi, vestito di bianco, si mette in viaggio. Da ogni parte del subcontinente, affrontando dieci, anche quindici giorni di cammino; a piedi, con la corriera, sul carro merci o bestiame, sul tuk-tuk, in treno. Entriamo così in città, con un macigno nella pancia e le certezze capovolte. Entriamo con l’esercito dei morti.

Benares, o Varanasi, è la più antica città vivente della Storia. Antica come Babilonia, gli uomini la abitano da oltre quattromila anni. Mark Twain ha scritto che “è più antica della storia, della tradizione, della leggenda, e appare invero antica più di tutte queste cose messe insieme”. Maestosa e decadente, si srotola lungo le sponde del Gange. Il fiume sacro, la madre ancestrale cui dovere la vita; vi si accede attraverso un centinaio di gradinate color mattone, i gath. Varanasi è la più importante tra le sette città sacre dell’India, pellegrinaggio obbligato per i fedeli, non solo induisti, anche sikh, giainisti e musulmani. Inoltre a Sarnath, mezz’ora di cammino, Siddharta Gautama, il Buddha storico, pronunciò il discorso sulle Quattro Nobili Verità, l’elemento cardine della dottrina buddista. La città ospita oggi tre milioni e mezzo di persone, tra cui circa cinquantamila bramini consacrati a officiare le cerimonie rituali. La principale è la cremazione con la dispersione delle ceneri. Si mira a raggiungere la moksha, la salvezza, e sfuggire alla ruota delle reincarnazioni, il samsara. A eccezione per le morti bianche, i bambini, in India si prega affinché il defunto raggiunga la meta suprema: non vivere mai più. A dispetto di tanta sacralità, il primo impatto non è diverso da quello avuto con altri luoghi dell’Uttar Pradesh. Un dedalo di mercanti dall’aria fragorosa, massaggiatori ambulanti, venditori di stoffe e di tè, barbieri di strada, mendicanti petulanti, vacche e scimmie e cani randagi si accalcano in una variopinta e speziata anarchia. Ci sentiamo sporchi, per via del viaggio, ma le persone che vediamo intorno lo sono di più; si direbbe che hanno un velo grigiastro incollato sul viso. Intanto gli accompagnatori, scesi dal treno con i propri cari in spalla, si allontanano in rassegnata parata. Devono registrarsi in una sorta di anagrafe e aspettare il proprio turno. Potrebbero passare settimane.

Qualche ora dopo, stesi sul letto della pensione, abbiamo poca voglia di parlare. In Occidente la morte è il tabù con la falce, la donna incappucciata del settimo sigillo; acquattata al buio dell’inconscio archetipico, ingoia ogni tentativo di felicità. Vederla normalizzata, burocratizzata, ci ferisce. Ci scopriamo attaccati alla sofferenza come una questione identitaria. Il responsabile della guest house ci viene a chiamare, vuole mostrarci qualcosa. Dice di chiamarsi Baba, lo seguiamo sul tetto. È scesa la sera, il crepuscolo si è liquefatto in una vena di rosso pastello e carta da zucchero. La città, di colpo, è ascesa a un silenzio irreale. Tutte le luci spente. Sul fiume una processione di lumini galleggia sul dorso della corrente, sembra una cometa di fuochi fatui. È la puja, la preghiera del tramonto. Un bramino salmodia una nenia mentre con gesti calcolati ruota candelabri e bracieri. I bambini adagiano sull’acqua le offerte devozionali. Seduti sul tetto, fumiamo. Non siamo i soli. Due cupe vampe, come ciminiere, s’innalzano fino alla luna. Sono le pire dei gath principali, c’illustra Baba, Manikarnika e Harish chandra. I cadaveri sono bruciati ininterrottamente. Da quattromila anni. Con lo sguardo accompagniamo i lapilli che danzano nell’aria. La patina sulla faccia della gente – che abbiamo anche noi – ora capiamo cos’è. Sono le molecole dei corpi in disgregazione. È la polvere della Bibbia, la cenere che eravamo, e che ritorneremo. Non ti fa impressione?, domandiamo a Baba. Good karma, bad karma, risponde laconico. Descritto nelle Upanishad, il karma è il lato immateriale delle azioni, e forma il destino degli esseri viventi. Se per i cristiani è la buona condotta a garantire il paradiso, gli induisti cercano l’aderenza con il dharma, un concetto sottile e articolato che potremmo sinteticamente tradurre così: le cose come devono essere fatte. Quest’attitudine, attraverso le reincarnazioni, genera il karma necessario per giungere alla definitiva liberazione dal dolore della vita. La beatitudine del vuoto, il nirvana.

Muti, ci poniamo delle domande. Il Cristianesimo, attribuendo la facoltà di risorgere a un solo uomo, ha privato tutti gli altri di questa prospettiva. Se si aggiunge l’idea di peccato originale, non sorprende che da noi l’esistenza sia ridotta a una gimkana psichica tra l’angoscia e il senso di colpa. Qui tutti risorgono, anzi, a un certo punto vorrebbero smettere. Sul serio non vuoi rinascere?, Baba alza le spalle e continua a fumare. Nella notte i denti gli luccicano come stelle.

Non è ancora giorno quando ci svegliamo, dall’orizzonte s’intravedono i primi bagliori. Per le vie c’imbattiamo solo in vacche addormentate. Scendiamo i gradoni e, contrattando, noleggiamo una barca. Trasportati da una coppia di fratelli, gli occhi come buchi neri, passiamo in rassegna alcuni gath. La città si sta svegliando, e si riversa al fiume. Donne lavano i panni. Una madre immerge energicamente un neonato tenendolo per il tallone. Uno yogi, barbuto e flessuoso, deterge i lunghi capelli. Le abluzioni nel Gange sono auspicio di buona fortuna. Arriviamo al Manikarnika gath mentre si leva il sole. Il fuoco, solenne come una preghiera, continua a puntare il cielo. Un grappolo di persone sta calando nella foschia del fiume le spoglie di un individuo. Deve essere un lebbroso, non è concesso loro di essere cremati. A riva, scendiamo dalla barca. Vogliamo addentrarci, arrivare all’epicentro di quel cuore che purifica e divora. Il paesaggio è spettrale, sembra l’Inferno nelle illustrazioni di Doré. Ci sono roghi ovunque. Avanzando, non riusciamo a evitare le lacrime. Sono il fumo e l’odore di carne bruciata. È la commozione. Gli addetti intanto accatastano legna. Nessuno si guarda negli occhi, perché se la gioia è un’esperienza vera se condivisa, il dolore si prova da soli. Altri raccolgono polvere, il residuo dei falò. È un buon fertilizzante. Quando vi è morte, vi è rinascita, recita la Bhagavad Gita, il sacro poema dell’Induismo. Ci viene incontro un bramino. Ci invita a seguirlo nell’edificio che si arrampica alla nostra sinistra. Lo indica: calce viva senza vetri alle finestre, sembra una struttura post-atomica. Titubanti, accettiamo. Dentro, una notte sempiterna. Giusto qualche lumino sul pavimento, sparso qua e là. Qui vive chi aspetta di morire, dice. La legna per ardere costa cara e le caste più basse non possono permettersela. E così attendono. Settimane, talvolta mesi, dimenticati a terra senza mangiare né lavarsi. Un’anziana signora, magra come il ramo di un albero, si alza scricchiolando al nostro passaggio. Tremante, ci porge la mano e mormora qualcosa in hindi. Fatele un’offerta, incalza l’officiante. Gli spieghiamo che per la morale occidentale è intollerabile pagare qualcuno per farlo morire.

È tanto che aspetta il suo turno, non ce la fa più.

Alla fine la morte, ecco cos’è. Una pratica da sbrigare. Una faccenda che riguarda i vivi. Perché quello che si cela oltre la porta, a nessuno è dato saperlo. Le diamo mille rupie. Senza dire nulla, accende un sorriso su quello che un tempo era il suo volto. Usciamo dal gath con l’impressione di aver inghiottito una palla rovente. Eppure ci sentiamo sollevati. Come astronauti di ritorno sulla Terra. Per le strade va in scena l’usuale baccano, ma non ci infastidisce più. La bellezza della vita è nella sua caducità. Tutti moriamo, accettarne la lezione è il passaggio obbligato per una nuova vita. Senza paure, né alibi. Mentre Varanasi ci palpita intorno, ogni gesto, ogni persona, assume ora un significato differente. Tutto è al suo posto, tutto ha la sua poesia. Dei giovani in una locanda giocano a karrom. Una bambina, riparata alla penombra di un cortile, pianta dei fiori.

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