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i prodromi

«Correva l’anno 1898-1899. L’inverno rigidissimo, la neve alta, la numerosa classe edile da tempo disoccupata, la miseria anche tra i piccoli proprietari campagnoli, che a Locorotondo vivevano e vivono tuttora sempre nella campagna, avulsi ed estranei ad ogni movimento non dico nazionale, ma persino comunale, la fame, la vera fame in tutte le case degli abitanti, queste erano le condizioni di quegli anni.

Ricordo bravi operai chiedenti l’elemosina, girare per le case dei ricchi, per avere due centesimi o un soldo (5 cent.) o un tozzo di pane (il pane nero e amaro costava 25 cent. il kg., il bianco 30).

Ricordo che una volta in piazza sei o sette giovani, fra i quali due miei fratelli maggiori, andarono a chiedere l’elemosina; io ravvolto in un vecchissimo e sbrindellato scialle di mia madre li seguii nella neve alta. Andammo a bussare alla casa del sig. Francesco de Bernardis ed avemmo un pugno di pere secche ciascuno; di lì andammo alla villa del sig. Giovanni Basile Caramia (ora scuola Agraria istituita da lui dopo la sua morte) che ci diede un soldo ciascuno. (Bisogna aggiungere che questo signore faceva sempre la carità a tutti i poveri che a lui ricorrevano, dando in denaro o due centesimi o un soldo, o un pezzo di pane).

Quindi tornammo in paese e bussammo alla casa di un altro riccone per quei tempi, il comandante Nicola Aprile Ximenes, ci aprì il cocchiere; ma giunti sul pianerottolo del palazzo uscì il comandante che ci scacciò villanamente e voleva licenziare il cocchiere perché aveva aperto il portone.

Inutile riferire le imprecazioni che dalla piazza levarono gli operai che avevano bussato e anche quelli che non ci erano andati, e dato che il palazzo si trova sulla stessa piazza certo sentì anche lui. Io per me, fanciullo ancora godevo della gazzarra contro quel signore, e forse, il primo impulso ribelle mi venne da lì.

Intanto la fame era grave, e per la prima volta, gli operai, gli edili soprattutto al grido di pane e lavoro si portarono sotto il municipio, per cui vi furono alcuni fermi; ma questi tumulti, benché fatti di sole grida si ripeterono varie volte. Nella campagna invece avveniva qualcosa di peggio. Una vera e propria associazione a delinquere si era formata, per cui non passava giorno che non vi fossero per la campagna cinque o sei grossi furti. Ma il furto del grano alla masseria Lella sulla via di Martina Franca fu fatale all’associazione. Di primo acchito ne furono arrestati trentasei che ammanettati a quattro a quattro con la neve e a piedi vennero condotti a Martina Franca dai carabinieri, altri li seguirono; moltissimi rimasero celati.

Il contegno della popolazione verso gli arrestati fu durissimo: fischi, sputi, sberleffi; specie perché in mezzo ad essi vi erano parecchi piccoli proprietari terrieri, che non soffrivano la fame come gli artigiani».

da Storia del Movimento Operaio di Locorotondo (Dai miei ricordi) di Arcangelo Lisi.

Lo ammetto, non ho saputo resistere. Ho trascritto tutta l’introduzione – ovvero i prodromi – di questa specie di manoscritto che mi sono trovata per le mani. È un prezioso prestito che mi è stato fatto da una persona inaspettata come lo è stato il mio correre per la Valle d’Itria. Non so quante copie esistano di questo piccolo libricino che riporta gli inediti ricordi di Arcangelo Lisi, uno dei fondatori del movimento operaio di Locorotondo a inizio Novecento. Sessantatré pagine di una storia tramandata di generazione in generazione, senza correzioni né aggiornamenti di sorta per mantenere intatto quel linguaggio di chi non ha avuto il privilegio di andare a scuola. È la narrazione autobiografica lucida e appassionata «di un umile operaio che vide giusto quando i più – gl’intellettuali, i borghesi – brancolavano nel buio», come si legge nella nota introduttiva. E in effetti leggendolo si trovano storie semplici di un uomo che attraverso gli episodi della sua vita ripercorre la strada dell’ideale socialista e senza troppi giri di parole riporta fatti e vicende realmente accaduti. Racconta di quando a soli cinque anni per la prima volta parla alla sua personale folla di “operai”, quando dodicenne trova a scontrarsi con la violenza da lui fino alla fine ripugnata, del fascismo, delle botte prese e della soddisfazione personale di non aver mai ceduto. Muore nel ‘68 Arcangelo Lisi e di lui si sa poco e nulla. Se non fosse per questo incredibile personaggio che mi racconta della sua esistenza, che mi mette tra le mani il suo manoscritto di ricordi con la promessa di consegnarglielo una volta letto.

Il mio benvenuto a Locorotondo si chiama Dudduzzo. Un signore distinto, elegante nella sua semplicità, che mi accoglie come se fossi la nipote preferita. Si definisce come un amante dell’arte prestato alla sartoria, rubando espressamente e con orgoglio la frase a Sanguineti, che si proclamava un politico prestato alla poesia. La sua bottega è piena di locandine di vecchi film, manifesti politici, fotografie, pellicola cinematografica arrotolata fuori e dentro bobine arrugginite, un ferro da stiro, sagome femminili di cartone, stoffe, ago e filo.

Il padre era sarto, lui è diventato sarto. Mi invita a sedermi in strada proprio di fronte al suo negozio e comincia a parlarmi di Locorotondo, comincia a parlarmi di lui e, come il protagonista del manoscritto che di lì a poco mi consegnerà, cattura totalmente la mia attenzione.

Sono appena arrivata in Valle d’Itria e oltre a espressioni tipo Locorotondo, il più bel balcone della Murgia dei Trulli – che già mi confonde sulla mia attuale posizione geografica – conosco veramente poco. Dudduzzo mi introduce alla storia del primo borgo che si affaccia sulla parte meridionale dell’altopiano delle Murge, nel cuore della Puglia, a cavallo tra le province di Bari, Brindisi e Taranto. Non vuole parlarmi dei trulli e accenna appena al barocco di Martina Franca che qui a Locorotondo diventa barocchino martinese e che si trova solo sulla facciata di palazzo Morelli (venti metri dopo la bottega di Dudduzzo) ma ci tiene a precisare come questo piccolo nucleo racchiuso nella sua perfezione circolare di pietre e calcine è molto più bianco della cosiddetta Città Bianca, la vicina Ostuni.

Mi perdo nelle sue parole come tra i vicoli di pietra dove il bianco della calce avvolge ogni cosa. Piccola, tonda, confortante, calda, tranquilla, intima. Mi piace Locorotondo.

le lame

Le lame, tipiche della provincia di Bari, sono solchi che l’acqua corrente dei fiumi e dei torrenti ha scavato nel corso del tempo nelle rocce calcaree della regione e che generalmente declinano dalla Murgia fino al mare Adriatico.

Cosa c’entri tutto ciò con il quartiere Le Lame di Martina Franca l’ho capito solo dopo essermi lasciata alle spalle il Palazzo Ducale nella piazza principale della cittadina famosa per il suo barocco. Ti perdi a Martina Franca, sembra impossibile ma è così. Tutto nell’arco neanche di un chilometro ma ti perdi. Da Piazza del Plebiscito a sotto le lame è un labirinto di stradine che si intrecciano in un susseguirsi di scalini terminanti su balconi di case che profumano di geranio. Sembra di essere finiti dentro a un’opera di Escher. A colori.

La gentilezza è sempre spiazzante quando inaspettata e devo dire che il viaggio in Puglia è stato una continua sorpresa in questo senso ma qui ci è mancato poco che per fare tre metri mi caricassero in vespa evitando di farmi perdere tra le strade senza fine copiate da quel pazzo olandese.

Ma a me piace perdermi e così arrivo finalmente al (non famoso) quartiere Le Lame. Che non è un quartiere ma lo scorcio più caratteristico del centro antico di Martina (al di sotto del centro storico scendendo verso valle “sotto le lame”). È una fotografia che vale la pena vedere. Ti allontani dalla movida cittadina che passeggia sotto al balcone di Palazzo ducale, tra il tintinnare dei tacchi delle ragazze vestite a festa, le risate dei bambini che corrono ingurgitando zucchero filato e i turisti che ancora si comprano le calamite a forma di trullo da attaccare sul frigorifero di casa, scappi per goderti il panorama di queste architetture spontanee, le cosiddette case a pignon. Un tocco di Kandinsky in questo mondo escheriano.

Va bene, la calamita a forma di trullo ce l’ho anche io, è posizionata tra le casette storte di Amsterdam, un affare che assomiglia a un pesce affumicato norvegese, Jimi Hendrix, una pagoda maori, la faccia di Mao accanto alla torre Eiffel, un sax sproporzionato che galleggia sulle lettere di New Orleans… Ora voglio anche la lama. Ma per trovare il magnete giusto devo arrivare a Polignano a Mare.

Entro in macchina nel paese ma vengo subito fermata dalla municipale che mi fa oltrepassare quella che penso sia la piazza centrale. Non vedo niente di Polignano, dalla strada si vede il mare ma della famosa cittadina che sorge su uno sperone roccioso a strapiombo sull’Adriatico neanche l’ombra. Proseguo verso Bari su una stradina sterrata che costeggia la statale e finisco praticamente nelle acque di San Vito. Otto metri sopra al livello del mare, una popolazione di ottantotto abitanti, un porto naturale che sa di romantico e la splendida abbazia con la scalinata esterna collegata al loggiato che si affaccia sul mare. Una piccola frazione da sogno quella di San Vito ma non faccio in tempo a bagnarmi i piedi che sono attratta da una folla di gente che invade letteralmente tutta la scalinata dell’Abbazia Benedettina. È un matrimonio. Ma la sposa è a Polignano. C’è un corri e fuggi generale e in meno di un lampo San Vito si svuota. Sento i commenti dei passanti che veloci salgono in macchina per fare a ritroso i tre chilometri che separano Peghegnéne (in dialetto barese) dal porticciolo che a malincuore sto salutando. Ascolto il chiacchiericcio generale che commenta questo matrimonio – deve essere qualcuno di importante – penso, ma capisco che più degli sposi le persone parlano della location scelta: «Certo che meraviglia sposarsi sulla costa polignanese – commenta una signora ingioiellata dalla testa ai piedi e avvolta da uno scialle arancio accesso – pensa l’album fotografico con lei in bianco che passeggia sopra Lama Monachile….»

Non sono mai stata così contenta di aver fatto dietro front. Tornata a Polignano trovo la strada aperta e finalmente posso affacciarmi dall’antico ponte della via Traiana che attraversa il paese. È uno spettacolo incredibile. La Lama Monachile di cui parlava la signora in arancio è la profonda insenatura immediatamente a Ovest che spacca in due il centro storico. Un piccolo scrigno nascosto tra i resti degli antichi romani e l’evoluzione di vento e salsedine.

play off

Ho lasciato Polignano, sono passata tra i caseifici di Cisternino, mi sono persa (di nuovo) nella Selva di Fasano e ora mi dirigo verso Bari. Sono quindici anni che non ci metto piede, ho segnato sul mio taccuino una serie di luoghi di interesse, mi sono organizzata una visita guidata personalizzata ma poi accade l’imprevisto. La radio si sintonizza sulla frequenza di Bari, c’è un tizio che strilla ricordando l’appuntamento al San Nicola: sei di pomeriggio, semifinale di andata dei Play Off di Serie B tra Bari e Latina. Si giocano l’entrata in A. Sono in cinquantaseimila allo stadio San Nicola. Un concentrato di sciarpe rosso bianco, i famiglie, di sorrisi urla bottigliette d’acqua bandiere fischietti occhiali da sole e tanta tanta voglia di vincere.

Sono in cinquantaseimila al San Nicola di Bari, di poliziotti ne conto tre, di tafferugli zero.

Ringrazio di cuore Lorenzo che ha assecondato la mia follia e dato occhi a questo nostro viaggio, grazie Fresh.

 

 

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