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di Luca Paolo Virgilio

C’è un quarto d’ora che da solo può raccontare la “mia” Birmania. Quindici minuti che racchiudono tutta la scoperta del viaggio, sufficienti a cogliere l’essenza di questo luogo e della sua gente, di chi lo anima e lo rende vivo. Non certo ad esaurire l’abbondanza di suggestioni visive che travolgono il viaggiatore, nei luoghi dello spirito come nelle immense distese di templi e pagode, di fronte a panorami mozzafiato e scenari di natura immacolata. Immagini e sensazioni preziose che restano appiccicate addosso, ma da sole non rendono merito all’incanto di quel tesoro perduto – e per fortuna ritrovato – che oggi si chiama Myanmar.

Infinite combinazioni di facce e colori, odori, suoni, lingue, cibi, arti e mestieri tutti diversi, formano un puzzle dei sensi che solo una visione d’insieme può aiutare a ricomporre. Per apprezzare l’esperienza del viaggio in tutte le sue sfumature, serve anche istinto, l’unica vera guida che ti fa arrivare ovunque, passepartout per luoghi nascosti e inaccessibili. È infatti al di fuori delle strade maggiormente battute che si scopre il volto più autentico del Myanmar: quello degli ultimi della classe, che non si nutrono di turismo e forse non l’hanno nemmeno mai incontrato. Non c’è bisogno di allontanarsi troppo; a volte basta girare l’angolo di una delle tante strade che soffocano nello smog. Ovunque s’intraveda un passaggio, una stradina di terra e ghiaia che si perde nel nulla. È in quel nulla che molto probabilmente troverete tutto.

I quindici minuti di questa storia si svolgono a Mandalay, seconda città del Paese che merita una presentazione. Io e i miei due compagni di viaggio ci arriviamo da Bagan, la celebre valle dei duemilacinquecento templi di cui altrettanti documentari non riuscirebbero a svelarne il mistero. Dopo il primo dei due incontri con Yangon, sono curioso di scoprire l’altra capitale storica del Myanmar, che nella sua giovane storia ha vissuto fortune alterne. È la città di monasteri e monaci – venerati e protetti come guardiani dell’identità culturale di questo popolo – e di riflesso dei militari che ne controllano ogni mossa, dopo aver represso, in passato, ogni tentativo di protesta contro il regime. È anche la città di una grande minoranza cinese – circa un abitante su tre – giunta qui negli ultimi decenni, che con la sua attitudine al commercio e all’imprenditoria ha aiutato Mandalay a rialzarsi in piedi, dopo gli incendi e il declino del dopoguerra.

Oggi la città sembra viaggiare a un passo differente rispetto a Yangon; lo si capisce già dallo sbarco in aeroporto, dove i taxi chiedono tariffe quasi doppie per portarti downtown. In macchina, oltre all’autista, ci fa compagnia una donna sui trenta, bella ed elegante, che non sembra per nulla incuriosita dalla nostra presenza. Si sta stretti. Il bagagliaio è socchiuso e si spalanca ad ogni buca, per poi inghiottire di nuovo, come una molla, i nostri zaini. Riusciamo a rompere il ghiaccio, così la donna bella ed elegante ci racconta di lavorare in un grande centro commerciale, dove fa la fashion designer. Restiamo un po’ delusi dalla rivelazione, tutti già abituati all’idea di un paese immune da queste tracce di Occidente. In realtà di centri ce ne sono tre; a Yangon non ne abbiamo visto nessuno. Per una città di un milione di abitanti, è solo un timido affacciarsi sul mondo del consumo, una goccia nell’oceano del capitalismo sfrenato che qui non ha – ancora – sfondato. Eppure è un sintomo dei tempi che cambiano, perché in netto contrasto con l’indifferenza che i Birmani nutrono da sempre per le cose materiali: orpelli a volte necessari per vivere, ma mai elevati a rango di feticcio.

La strada per la città, lunga ma non troppo disastrata, offre un panorama diverso da quello che mi aspettavo: se i sobborghi di Yangon si fondono con il centro in un sodalizio di cemento che lascia poco spazio alla fantasia, qui scorrono scene ad alto contrasto. Sciami di moto – delle vecchie Honda con cambio manuale ma senza frizione – sfilano nella penombra delle prime ore di sole, spesso con intere famiglie a bordo. Si viaggia piano tra polvere, pedoni audaci e restringimenti di corsia. Stanno rifacendo l’asfalto, e già questa è una novità per un paese che ha poche e fatiscenti infrastrutture ed ampie zone isolate, e in cui si è obbligati a scegliere tra interminabili spostamenti via terra e brevi ma poco rassicuranti voli interni. Alto contrasto, dicevo, come quello tra i fumi neri del catrame fresco e il verde lussureggiante dei campi di riso e girasoli che ci accompagnano fino alle porte della città; o quello tra la frenesia di chi bazzica la strada e la calma di chi, appena oltre i bordi della carreggiata, accudisce pazientemente i frutti della natura.

Nel frattempo la nostra stilista è giunta a destinazione, e noi facciamo rotta sul nostro hotel, l’E.T. Al di là del nome che evoca mondi lontani, si tratta di un alberghetto gestito da una gentile famiglia di origine cinese, e pervaso da una strana atmosfera di squallore vintage, che però non sommerge tutti i piani allo stesso modo. Il nostro sì: i neon freddi, le sudice coperte di lana, e le pareti grigie e scrostate non ci invogliano a passare troppo tempo nella nostra camera. Il che è un bene, perché abbiamo fame di esplorazione.

Usciamo dunque alla scoperta della città. I piccoli cantieri disseminati ovunque ci fanno capire come qualcuno abbia deciso di puntare forte su Mandalay, condannando Yangon a una lenta decadenza urbana. L’altra faccia di questo fervore edilizio è quella di bambini, donne e anziani che si caricano i sacchi sulle spalle, poggiano i mattoni, impastano il cemento. Lo fanno al fianco di uomini adulti e in salute, che in altri Stati, con altre leggi, sarebbero i soli idonei al mestiere. Ma qui è normale, per chi vive sotto lo stesso tetto, condividere il lavoro; famiglie intere faticano nei cantieri come nelle risaie, famiglie di piccoli artigiani e piccoli ristoratori, albergatori, allevatori e commercianti. Senza patrimoni da gestire, l’unica eredità tramandabile è la scienza del mestiere.

Le strade di Mandalay formano un grosso reticolo ortogonale, che fa assomigliare la pianta della città a quella di Manhattan – e anche qui le vie sono identificate da numeri disposti in ordine crescente. L’aria è avvelenata, nonostante non ci sia tantissimo traffico (la gente perlopiù si ammassa sui pickup locali, anche perché l’automobile è ancora un bene di lusso): la benzina trabocca di piombo e le strade di polvere, mentre la pioggia è una benedizione rara. Così, in cerca di un po’ d’ossigeno e di qualche angolo nascosto, decidiamo di allontanarci dalle zone più battute e imbocchiamo una via silenziosa, sperando che ci regali qualche incontro sorprendente.

Proprio quando la strada – ormai poco più che un vicolo – sembra morire nel nulla, ci si spalanca davanti un grosso slargo. Ci metto qualche istante a capire dove siamo finiti: è una vecchia stazione ferroviaria; l’erba si è impossessata dei binari, abbandonati da chissà quanto tempo. La banchina è piena di gente seduta per terra: sono ragazzi e ragazze, adulti e bambini che lì vivono le proprie giornate, e lo fanno con incredibile discrezione. L’atmosfera è surreale. La visione di quelle persone che sembrano aspettare un treno che non arriverà, si presta a infinite suggestioni metaforiche. Appena ci vedono, sull’intero luogo – qualche centinaio di metri di rotaie, banchetti, capanne, delimitati da lunghi muri paralleli che costeggiano tutto il percorso – cala un silenzio immutabile. Tutti gli occhi sono puntati su di noi, per il tempo di un istante, interminabile. Provo un po’ di disagio, non tanto nell’essere al centro dell’attenzione di un pubblico così vasto, ma perché mi sento un intruso, un conquistador dalle buone intenzioni che solca strade che non gli appartengono.

Quasi mi vergogno, di me stesso e dei segni di civiltà che porto addosso: lo zaino, la macchina fotografica, gli occhiali da sole, i miei vestiti e perfino i miei capelli. Tutto mi sembra inappropriato, in quel posto che un antico incantesimo deve aver condannato a vivere la stessa vita da tanti anni. Quell’istante racchiude tantissime sensazioni, pensieri confusi e frammenti di profonda umanità. È come se ogni differenza, sociale e culturale, sia spazzata via dall’intensità di uno sguardo, che ci fa riconoscere la nostra comune natura di uomini. Così capiamo che non c’è da aver paura gli uni degli altri.

Sui due lati della ferrovia è cresciuto un intero quartiere di capanne di legno e lamiera; donne e uomini di tutte le età attendono pazientemente qualche improbabile cliente dalle loro bancarelle di frutta e verdura. C’è immondizia ovunque, ma nessuno che vi fruga dentro, per fortuna di quello non c’è bisogno. Camminando cerco di scomparire; non voglio disturbare la dignitosa armonia di questo luogo per me magico. Dei bambini giocano con gli aquiloni, sono concentratissimi. Li immagino mentre sognano di volteggiare in balìa delle correnti, come quella busta di plastica di cui tengono il destino tra le mani, simbolo di una libertà che nella realtà gli è negata.

Sono momenti sospesi, di intensa emotività. Riusciamo anche ad assaporarne un po’, quando un bambino affida il suo sogno di libertà alle nostre mani inesperte, come se fosse la cosa più normale del mondo. Condividere quel poco, anche nulla, che si possiede: è questa la normalità qui. Vorrei scattare centinaia di foto, sarebbero le immagini più vere dell’intero viaggio. Ma non ne ho il coraggio; ho già rubato il segreto di quel luogo, non voglio rubarne anche i volti, l’anima. Faccio una sola eccezione: un pezzo di muro reso vivo da panni colorati stesi ad asciugare, testimonianza di riflesso della presenza di chi li indossa.

La vita sui binari torna presto com’era prima del nostro arrivo. Noi, stranieri, viaggiatori, camminando per quel luogo dimenticato dagli uomini, fuori dal tempo e dal mondo circostante, per qualche istante ne siamo stati parte integrante. Non è facile descrivere cosa ho provato in quei quindici minuti: la percezione, costante e nitida, che nessuno prima di noi – nessun estraneo – si fosse mai imbattuto in quel microcosmo inimmaginabile. Lo si leggeva sui loro volti. Era una scena di cui avevo incontrato frammenti, nelle foto di Hiroshima che si risveglia dalla bomba, nelle discariche a cielo aperto di Jakarta, nei cimiteri abitati (dai vivi) del Cairo. Ma qui era diverso: c’erano sporco e povertà, sì, ma non quel cupo senso di rassegnazione, la sensazione che tutto sia perduto perché si è tagliati fuori da un mondo che ha dato molto a pochi e niente a moltissimi. C’era la speranza di un’umanità che non ha ancora perso fiducia nei suoi simili. Inimmaginabile, davvero.

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