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di Giorgio Fiorilli| foto di Matteo Armellini

Sono passati ormai cinque giorni da quando ci siamo lasciati Melbourne alle spalle, abbiamo sentito soltanto l’odore del grande viaggio, del rosso, desolato e malinconico deserto. Penso ai due mesi passati in quel monolocale di St. Kilda aspettando questo giorno, che sembrava non arrivare mai.

Finalmente il distacco dalla capitale del Victoria (il più piccolo ma anche il più popolato stato dell’Australia) ci rende vivi e fa sembrare tutto più leggero e pieno d’emozione.
Siamo a Port Augusta, South Australia, la porta verso il deserto, la porta verso la lunga lingua di cemento che taglia in due l’Australia: la Stuart Highway, strada dei pionieri, 6800 km prima dell’arrivo alle scogliere di Darwin, ultima tappa del nostro viaggio.
La serata è trascorsa tra un ballo e l’altro, tra una birra VB e un whisky in compagnia del popolo aborigeno, così alienato e così schiavo dell’alcol da non rendersi conto che ormai in questo immenso continente non c’è più posto per loro, veri abitanti di diritto di questa meravigliosa terra… ma questa è un’altra storia.
Affascinati da tutto ciò che ci circonda, apprezziamo ogni variazione di colore, i mulinelli di sabbia rossa che si alzano dinnanzi a noi con la stessa velocità con la quale scompaiono dopo qualche centinaio di metri.

I cartelli stradali che si susseguono sulla Stuart Highway sembrano stati posizionati per le riprese di un film di Tarantino: ”Please arrive alive” è il primo, seguito da altri due che segnalano le condizioni difficili che incontreremo in quest’area remota dell’emisfero australe.
Di notte, sdraiati sotto una via di stelle che si spinge all’infinito, la osserviamo arrivare fino all’altezza delle dita dei piedi, mentre la croce del sud ci segue e veglia sui viaggiatori alla nostra destra.
Marciamo ad andatura molto rallentata per via dei canguri che ci sfrecciano di fronte a pochi metri dal van, attratti dalle nostre luci di posizione.  Purtroppo due di questi non vedranno il mattino seguente. Se li eviti vai fuori strada: la regola del deserto è marciare diritti e per questo di giorno la strada è piena di carcasse, il pasto preferito dalle aquile.
Dopo cinque ore sulla strada dell’immenso ed incontaminato deserto, iniziamo ad intravedere i primi buchi nel terreno: ammassi di sabbia rossa dai quali si ergono comignoli, centinaia a poca distanza l’uno dall’altro. Abbiamo appena valicato il silenzioso e malinconico confine della cittadina di Coober Pedy, la capitale mondiale dell’opale.
Saliamo sulla collina rocciosa dalla quale è possibile scorgere le calde e polverose vie di snodo della cittadina. Rudimentali macchinari per bucare il terreno sono buttati a gruppetti intorno alle “case” dei ricercatori, che non sono altro che grotte, montati su vecchie macchine da trasporto importate dall’Inghilterra. Siamo lontani da ogni altra realtà australiana.
Il padrone dell’unico pub della “ridente” Coober Pedy ci racconta che qui vi abitano all’incirca tremila persone, provenienti da quarantacinque paesi diversi, forzate a vivere nel sottosuolo a causa delle difficili condizioni atmosferiche dove lavorano nelle miniere a decine di metri sotto il livello del deserto. Il sottosuolo permette di stabilizzare le temperature, 50° nella stagione estiva e 0° nelle nottate invernali.
Si scava per il sogno di ritrovare il filone d’opale (minerale amorfo dal colore tra il trasparente e il bianco latte) estratto da un ragazzo, con l’aiuto del padre, nel 1915, che ha dato via al pellegrinaggio di ricercatori da tutto il mondo. Dopo la prima scoperta, purtroppo, ai sognatori di Coober Pedy, sono toccate soltanto le briciole.
Ci lasciamo alle spalle il pub e continuiamo a costeggiare la collina. Da qui scorgiamo strane sculture all’interno di un cancello che delimita un’area dalla quale è possibile ammirare il magnifico panorama del deserto. Decidiamo di entrare. Michael, uno strano giapponese con il cappello da cowboy, viene a darci il benvenuto, gli occhi illuminati e speranzosi di finalizzare la prima vendita giornaliera.
Il patio che circonda la sua abitazione è nella posizione migliore della città, le enormi sculture fanno da decorazione, posizionate sull’arido terreno a ridosso della parete rocciosa della collina. Sono parti delle scenografie costruite per il film di Vin Diesel “Pich Black”, girato qualche anno prima nei territori adiacenti a Coober Pedy, lasciate lì dalla produzione dopo aver abbandonato il set. Michael è stato uno dei più svelti ad appropriarsene, per dare un tocco di originalità al suo “giardino” e per incuriosire ed invogliare i turisti ad entrare.
Inizia il giro turistico: quando parti di opale vengono fuori da un pezzo di roccia, Michael le lavora con cura per poi presentarcele in tutto il loro splendore ad un prezzo di quindici dollari. Riusciamo ad appropriarcene per mille rupie, banconota indonesiana di valore molto inferiore alla richiesta, ma per Michael lo scambio è un affare. La guarda in modo strano, come se non avesse mai visto una banconota diversa dal dollaro australiano.

Eravamo lì per vedere i buchi nel terreno, per percepirne la profondità, per apprezzare il lavoro quotidiano di questi strani personaggi, ma l’unica cosa che stavamo veramente portando alla luce erano le loro storie, le loro avventure, i sogni e le preoccupazioni future.

Ringraziamo Michael e proseguiamo il nostro trip per le strane vie di Coober Pedy. Presso “Ice cream street” scorgiamo una porta diroccata dislocata nel terreno dalla quale escono dei vapori. È la casa di Milan, un gigante di origine croata, in mutande, busto, maglietta e bastone, inciampato dalle scale della sua grotta, di ritorno da una massacrante giornata di lavoro. Ci vorrà ancora un po’ di tempo per recuperare, e la preoccupazione, ci racconta, è per il suo business: non potrà più scavare per almeno un mese. I suoi occhi sono spenti e stanchi, ma illuminati, ogni tanto, dagli aiuti della comunità locale, che lo sta sostenendo finché non finirà il suo periodo di recupero. Anche prima dell’incidente comunque non se la passava troppo bene: poche tracce di opale trovate negli ultimi anni e troppi pochi soldi per tornare indietro. In volto e nell’anima la consapevolezza che il sogno lo sta confinando in quella desolazione, forse per il resto della sua vita.

Appena usciti dalla porta dell’abitazione di Milan, il silenzio della piana di Coober Pedy ci assale e un po’ di amarezza inizia a farsi spazio. La chiamano la capitale dell’opale, ma sembra piuttosto la città dei sogni infranti.

È ora di divertirci un po’. Armati di bastone rudimentale e pallina da golf, ci facciamo due buche nel Coober Pedy Golf Club, un centro abbandonato tra gli scavi, nel quale erano state posizionate un paio di bandierine rosse.

Il giorno nel deserto è così lungo che sembra non finire mai, la sveglia è dettata dal sole e dal caldo che invade ogni mattina il nostro van. All’aria aperta non riusciamo mai a vedere i nostri volti, coperti dalle sciarpe e dagli occhiali stretti per difenderci dalle mosche che si aggrappano sulla pelle in cerca di liquidi. Le devi prendere con la mano e staccartele di dosso, sei completamente invaso e la maggior parte delle volte non riesci nemmeno ad ammirare con tranquillità i paesaggi ed i colori della natura che ti circondano.

Il pomeriggio lo passiamo entrando nelle case abbandonate della cittadina, nella chiesa sotterranea, comprando birra per la lunga serata che ci aspetta. Ciondoliamo nei piccoli negozi alla ricerca di riparo e di altre storie che potrebbero arricchire la nostra conoscenza del posto e il nostro bagaglio di ricordi, ma senza alcun risultato. La comunità aborigena sta iniziando ad invadere i negozi di liquori e si riverserà per tutta la notte tra le strade di Coober Pedy, barcollando tra le luci gialle della città, con i loro tratti marcati ed il loro odore, più acre e pesante della terra che respiriamo.
Un vento fresco proveniente da sud ci viene in salvo, portando la lucidità per scrivere tutto questo. Ci riversiamo nel nostro accampamento notturno, dove in compagnia della musica dei “Tulipan Orange” iniziamo a fare il piano per il giorno seguente.
Fortunatamente in Australia puoi fare il barbeque ovunque, anche tra le strade di Coober Pedy. Il canguro è il nostro piatto preferito e la VB è la benzina che dà il via ai pensieri, per riordinare le idee e per pensare anche alla nostra di vita, così lontana da questa realtà ma così caotica da allontanarci dai nostri sogni.