di Lisa di Iorio
TAPPA 1
Non avevo paura di lavorare sodo nei campi, avevo paura di stare da sola. Ma avevo capito che solo affrontando quella paura sarei riuscita veramente ad intraprendere il Viaggio. Ripenso alla conversazione che ebbi con il mio caro amico Andrea, prima di partire.
“La distanza è relativa. Se questa notte t’incamminassi da qui all’altra parte dell’isola (Ischia), potrebbe sembrarti una distanza infinita. Potrebbe sembrarti un viaggio ben più lungo che se tu andassi in aereo in…che ne so, Germania. Io non ho bisogno di prendere un aereo per viaggiare. Non ho bisogno di muovermi da qui. Il viaggio è dentro di te. Dentro di te, è il posto più lontano che tu possa raggiungere”.
In effetti, io non lo sapevo ma il mio viaggio era iniziato tre mesi prima, quando avevo lasciato il mio lavoro, il mio ragazzo, la mia famiglia. Come spesso accade, il paese in cui scegliamo di espatriare è un pretesto, un punto d’arrivo che segnala invece, l’esatto punto di partenza. Ero finalmente irraggiungibile da chiunque, ero finalmente padrona di lasciarmi guidare dal mio istinto. In una parola… ero libera. Non v’è elisir più dolce, non esiste droga più adrenalinica di quella sensazione. Nulla che possa inebriarti di più della tua stessa percezione di essere una creatura libera, dinanzi ad una miriade di strade che tutte portano alla felicità.
E così, il mio viaggio iniziò ufficialmente.
Le due donne che mi avevano accettato come “woofing worker” nella campagna di Lismore, precisamente a “Donoon”, erano due ex-clown di un circo. Heidi e Lazuli erano gentilissime. Heidi alta con lunghi capelli dorati. Lazuli bruna, dagli occhi di lapislazzuli. In macchina con loro, imparo che la vita di campagna può essere frenetica come quella della città ma che è più realistica. Imparo che è possibile fermarsi sul ciglio della strada e raccogliere dei frutti dagli alberi e che ogni passante è un amico da tempi immemori. Lazuli è parzialmente sorda. Con il suo sorriso dolcissimo mi chiede se mi piace il mango. Me ne offriranno appena arrivate a casa. La foresta di alti alberi di eucalipto fa sembrare la nostra macchina una minuscola biglia che, sommessamente, rotola in sentieri attorno ad essi. L’aria è pulita e l’intenso squittio di uccelli quasi non mi fa sentire più il trambusto dell’auto che arranca tra le buche della strada sterrata.
La loro casa era all’interno di una comunità di artisti, hippies, musicisti e attivisti per la natura. Ognuno di loro si affacciava e ci faceva cenno con la mano dall’uscio delle loro strane casette di legno. Una luce mi abbaglia, mi giro verso destra e mi accorgo che un’improvvisa interruzione degli alberi aveva rivelato un morbido paesaggio di colline, alberi di palme e cipressi neri. Era buffo, anche se ero appena scesa da un aereo, mi sembrava di vedere per la prima volta il cielo. Parcheggiamo nello spazio antistante alla loro casa. Davanti a me si erge maestosa, una costruzione di legno ricavata in mezzo agli alberi con incredibile maestria. Entriamo all’interno e mi accorgo che non vi sono vere e proprie pareti, solo delle impalcature. La cucina sembra una specie di bottega di un qualche artigiano affaccendato. Un tavolone al centro pieno di utensili per la cucina, scatole, ampolle con la frutta, contenitori malconci sopra e sotto il tavolo. Un bollitore in ceramica bianco, posizionato sui fornelli in stile piastra da campeggio, esala piccole nuvolette di vapore. Le credenze sembrano illuminate dalla luce retrostante del sole e svelano una miriade di barattoli e barattolini coloratissimi. La sala da pranzo dà su quel bel panorama che avevo visto in macchina, quello col cielo bellissimo. Mi siedo sul divano coperto con vecchie lenzuola variopinte e una pelle di pecora. Credo di essere nel posto più bello della terra.
Mentre chiacchieriamo del più e del meno, un enorme insetto si precipita sul tavolo di fronte a me. Hailey con nonchalance lo prende tra le mani e gli parla come se fosse un gattino adorabile. Me lo porge chiedendomi se volessi adagiarlo sulla mia di mano. Le dico di no e lei se lo posa sul maglione, lasciandolo libero di girovagarle addosso. Mi spiegano che al momento hanno un pò di problemi con i topi perché il serpente che viveva lì con loro, se ne era andato. Lazuli mi indica una delle travi sul soffitto per mostrarmi dove il serpente era solito sostare. Mi sembrava tutto assurdo ma il bello doveva ancora arrivare. Mi accompagnano attraverso un canneto, verso una roulotte sistemata a circa cinquanta metri dalla casa. Quella roulotte di legno gialla e azzurra aveva un nome, si chiamava Ishtar. Apparteneva a una cartomante che tanto tempo fa, girava per villaggi con questa casetta mobile trainata da cavalli. Due piccole campanelle pendenti tentennavano lievemente al fruscio caldo del vento. La porticina malandata che a malapena si chiudeva, era l’unica sicurezza che avevo contro la fitta foresta esterna.
Stava cominciando a imbrunire e l’idea di dormire lì dentro tutta sola, un po’ mi spaventava.