La fotografia si colora di solidarietà
«Bisogna che i colori del Nepal tornino alla luce e siano il primo passo verso la ricostruzione. Le mie foto devono diventare il mezzo per permettere a tutti di posare gli occhi su qualcosa che è esistito e non esiste più, aiutando nel frattempo chi questi colori può ridarceli».
Le parole sono di Jacopo Brogioni il giovane fotografo romano che ha realizzato il progetto Bring Back Those Colours, “Ridateci quei colori”, in mostra fino al 27 febbraio all’Atalier Montez di Roma. Un progetto nato in favore di Unicef per sostenere la popolazione nepalese vittima dei devastanti terremoti del 2015 che grazie al giovane team dell’Associazione CultRise è arrivato alla sua quarta tappa espositiva dopo essere stato ospitato al MAXXI di Roma, durante l’Expo di Milano nei padiglioni di Nepal e Russia e al CRAC di Lamezia Terme.
Un progetto quindi che si pone come obiettivo non solo quello di sensibilizzare ma anche di contribuire concretamente alla ripresa di un paese bisognoso di aiuto. Il ricavato netto della mostra fotografica infatti, della vendita delle opere e delle altre donazioni ricevute spontaneamente sarà interamente devoluto a Unicef Italia, presente in Nepal da oltre 40 anni, con programmi sia di sviluppo sostenibile che di risposta alle emergenze.
Ma c’è di più. Questo sabato 27 febbraio alle ore 16.00 negli spazi dell’Atelier Montez, dove dal 5 febbraio è ospitata la mostra di Brogioni, il Dottor Carnaroli batterà all’asta una selezione di quattordici opere del progetto Bring Back Those Colours. I ricavati della vendita saranno donati ad Unicef per sostenere i bambini nepalesi vittime del terremoto. (Le opere sono visibili presso l’Atelier Montez da oggi fino a sabato dalle 17.00 alle 20.00 o su appuntamento)
Tutto nasce però nel 2014 quando Jacopo, appassionato di viaggi e di vita, decide di partire per la prima volta per il Nepal, inconsapevole di dove quel viaggio l’avrebbe infine condotto.
Dicembre 2014: il primo viaggio. Perché il Nepal?
Nascendo come “fotografo di scena” ho cominciato a rapportarmi con immagini che non erano di vita quotidiana ma costruite su set cinematografici e televisivi con attori che vi interagivano. Il mio compito era quello di raccontare cosa succedeva. La passione per il viaggio insieme a questo stile che ho acquisito si sono fusi insieme e ogni paese che ho visitato è diventato un set per ritrarre quel particolare mondo con il quale entravo in contatto, esplorando dal mio punto di vista culture e micro-cosmi sociali sempre diversi.
Sono sempre stato un grande appassionato di viaggi, da quando avevo sedici anni ho cominciato a viaggiare da solo e non ho mai smesso. Ogni paese vale la pena di essere visitato, ogni paese è un set che vale la pena di raccontare. E così nel dicembre del 2014 il mappamondo ha cominciato a girare, ho puntato il dito ed è uscito il Nepal. Sono partito alla scoperta di un area geografica che non avevo mai esplorato. Un paese piccolo ma di sicuro il più affascinante che ho visto. Un concentrato di culture ma soprattutto di colori, da cui poi verrà il nome del progetto. Un continuo set a cielo aperto.
Che cosa ti ha lasciato questo paese la prima volta che l’hai visitato?
Sono rimasto per un periodo abbastanza breve ma ho avuto la fortuna di assistere a diverse cerimonie che mi hanno catapultato in una cultura sconosciuta e affascinante. Come il Yomari Punhi Festival, dove nel mese di dicembre durante la luna piena si festeggia il termine della raccolta del riso. È un festival della casta Newar, la più importante e predominante nella zona dei templi di Kathmandu. Ero letteralmente circondato da colori, sembrava di stare nel Piccolo Buddha di Bernardo Bertolucci.
Un’altra cerimonia a cui ho assistito è il rituale dell’Holy Bael dove bambine dagli otto ai dodici anni vengono vestite di rosso quasi come piccole spose, per celebrare il rito del matrimonio con un albero che simboleggia il passo intermedio per individuare la Kumari Devi, la dea bambina che sarà poi prescelta. Un tripudio di rosso, oro e ocra.
Sono capitato anche in un campo di rifugiati tibetani nella zona di Pokhara nel giorno del 25° anniversario del premio Nobel al Dalai Lama. Non c’era neanche un turista. Ero circondato da tantissimi elementi della religione buddhista e non potevo fare a meno che pensare al contesto geografico e storico ma l’elemento umano per me rimane predominante. Mi focalizzo sulle scene di vita quotidiana, cerco il ritratto che, come i posati sul set, vuole descrivere più da vicino il volto della persona. A volte “rubo” scatti ma per i ritratti è diverso, devi mettere a proprio agio la persona che ti concede lo scatto.
Dietro ogni scatto esistono infinite storie… ne vuoi raccontare qualcuna?
Uno scatto mi ha toccato nel profondo: ho incontrato dei bambini che tornavano da scuola e un bimbo timido che passeggiava da solo. L’ho fermato e gli ho chiesto dove stesse andando e cosa stesse facendo. Piano piano ha cominciato a sorridermi, io ho continuato a parlargli, lui alla fine si è sciolto e orgoglioso mi ha mostrato il suo quaderno dei compiti con il suo lavoro.
Durante una missione con l’Unicef nel Gorkha, uno dei distretti più colpiti dal sisma, ho trovato un quaderno aperto in mezzo alle macerie in un villaggio totalmente distrutto. Questo è l’unico scatto privo di elemento umano, un non ritratto ma per me è il seguito della storia di quel bambino incontrato nel primo viaggio.
C’è un’altra storia che non ho mai raccontato. Un bambino con lo zucchero filato non voleva farsi fotografare. Giocando con lui sono riuscito a rubare uno scatto. Questo bambino l’ho incontrato nello stesso posto dopo il terremoto. Gli ho mostrato la foto, era lui con un anno in più ma era cambiato, i suoi occhi erano diversi, più grandi, vissuti. È stato davvero molto forte.
Ma torno dal primo viaggio pieno di fotografie di repertorio, come alla fine di ogni mio viaggio.
Senza sapere che dopo pochi mesi queste foto sarebbero diventate così importanti.
Il 25 Aprile 2015 un terremoto di magnitudo 7.8 con epicentro tra Kathmandu e la città di Pokhara mette in ginocchio il Nepal: è una catastrofe inimmaginabile.
Tu dov’eri? Cosa ti è scattato?
Ero a Milano per il giorno della Liberazione. Un giorno importantissimo nella nostra storia. Ho il vizio di controllare l’Ansa in continuazione (invece che Facebook) e leggo questa notizia che mi sconvolge, due righe dell’Ansa dove non si sapeva ancora nulla. Dopo un po’ appare un foto di Kathmandu. Irriconoscibile. Si temono tantissimi morti. Saranno più di novemila.
Rimango scioccato.
E penso.
Ho delle immagini di ciò che c’era prima di questa tragedia, piuttosto che venderle ad agenzie di stampa devo trovare il modo di metterle a disposizione dei nepalesi. Chiamo Tiziano, il presidente di CultRise, conoscendo la sua follia sono sicuro che mi darà una mano. E infatti è così.
In dieci giorni seleziono le foto del mio primo viaggio e insieme ai ragazzi dell’Associazione buttiamo giù un’idea di progetto per poterlo presentare a diverse organizzazioni che si occupano di project management culturale per vendere le immagini e poter donare il ricavato.
Presentiamo il progetto a Unicef che rimane colpito dalla velocità e dal contenuto. Si decide che i ricavati della vendita e delle donazioni durante la mostra andranno a loro.
È fatta. Ma manca qualcosa. Sento che non basta. Bisogna fare un confronto tra quello che c’era e che non c’è più. Decido di ripartire, devo ripartire. E sconvolgendo i piani di tutti in un attimo mi ritrovo in mezzo alle macerie. Per venti giorni con il supporto dell’Unicef, del mio assistente e grazie all’Onu, sono riuscito a vedere zone e luoghi che non avrei mai potuto raggiungere.
Luglio 2015. Secondo viaggio. Cosa trovi?
Mi trovo di fronte un Nepal senza più colori. Trovo un paese che ha cominciato a fare i conti con questa tragedia già da un mese. Un paese che tenta di mantenere i propri colori, quelli delle persone circondate dal grigio della polvere e delle macerie.
In centro a Kathmandu ho fatto uno scatto dallo stesso punto dove avevo già scattato nel primo viaggio a Basantapur square che adesso è totalmente distrutta. Di quei templi fotografati in un giorno di festa oggi non è rimasto più nulla.
Capisco davvero che tipo di viaggio sto per intraprendere. Mi preparo psicologicamente. Venti giorni in questo clima sono tosti, ma la dignità di queste persone è pazzesca e non smette mai di sorprendermi. Il nepalese è quello che si va a cercare il mattone buono in mezzo alla macerie per costruirsi una casa nuova. Sono ospitali nella stessa maniera, ti sorridono mentre ti raccontano di avere perso tutto.
Sono arrivato vicino al luogo del primo epicentro, nel distretto del Gorka. I tre giorni di viaggio sono diventati sei, visti tutti gli impresti lungo la strada. Pioveva quindi il rischio di frane era molto alto, si camminava sulle strade con la consapevolezza che poteva crollarci tutto addosso. Eppure il clima era sereno. Con l’Onu abbiamo portato una tenda Unicef per poter visitare le donne incinte e per poterle assistere dopo la nascita dei bambini.
Quanto è stato difficile realizzare il tuo progetto?
Una signora ha perso la nipote. È uno degli scatti dove non c’è compostezza nello sguardo. Questa donna piangeva disperata raccontando di aver perso la nipote di otto anni.
Per scattare devi essere freddo. Ascoltare storie di bimbi che ti parlano di aver perso la loro mamma sotto le macerie con la stessa intensità di quando ti raccontano di aver perso la loro capra o la loro casa.
Un altro ragazzo è rimasto paralizzato dopo il terremoto. Veniva nutrito attraverso un sondino, aveva un badante, ho chiesto a lui di poterlo fotografare. Questo ragazzo ha ascoltato quello che stavo facendo, il suo badante gli ha tradotto e spiegato il mio progetto e il perché mi trovavo lì con una macchina fotografica e i suoi occhi si sono illuminati. Ha spostato la mano per farsi vedere il volto e si è fatto fotografare. Credo sia stato il suo ultimo ritratto.
Se nel primo viaggio per scattare dei ritratti bisognava fare un lavoro di avvicinamento e di ascolto, mettere a proprio agio le persone nel secondo viaggio è stato ancora più difficile.
Per questo bisogna essere freddi. Mentre fotografo piangevo dentro.
Ma queste persone incredibili, spezzare il loro spirito è quasi impossibile.
Il bambino Bibash che si vede nel video. L’ho incontrato in un child friendly spaces de l’Unicef, una specie di scuola campo per i bambini. Questo bimbo disegnava in continuazione scene di terremoto, tutti i giorni. Mi mostra questo disegno di un palazzo in fiamme con le persone in mezzo che bruciano. Mi spiega che disegnare il terremoto significa sperare che non torni più.
Nyra, il ragazzo incontrato a Bhaktapur i primi giorni del secondo viaggio, è riuscito a salvare suo fratello ma ha perso tutto. Nyra faceva l’insegnante e seguiva un master all’università. Ha dovuto smettere di fare tutto ciò. È preoccupato per il suo futuro e per quello di suo fratello. “Se sei sopravvissuto il futuro non esiste più”.
Siamo diventati amici con Nyra e alla fine della missione con l’Onu mi ha portato in un posto pazzesco da dove si vedeva l’Himalaya. Due giorni di vacanza, un momento di pace, due amici che si godono la fantastica vista dei “settemila”.
Le opere in asta sono visibili presso l’Atelier Montez
da mercoledì a sabato
dalle ore 17:00 alle ore 20:00 o su appuntamento
E’ possibile depositare offerte prima dell’asta contattando direttamente Atelier Montez al numero 06 83799444 oppure all’indirizzo e-mail galleria.montez@live.com
e riceverete in anteprima il catalogo “ASTA BBTC”
bringbackthosecolours.com
Tutte le immagini | Courtesy of Cultrise e © Jacopo Brogioni