Le foto sono state scattate da Pietro Vertamy | ulixespicture.com
Pietro Vertamy, fotografo e viaggiatore incallito, nasce a Cuneo nel 1979. Vive tra Forlì e Bologna prima di approdare a Roma per studiare fotografia presso l’Istituto Superiore di Fotografia e Comunicazione Integrata di Roma (ISFCI). Negli anni si è dedicato all’attività fotografica professionale sia nell’ambito del fashion style advertising che nel fotogiornalismo e nel reportage d’autore, sue autentiche passioni.
Dal 2009 fa parte del corpo docente dell’ISFCI. Attualmente è editor e responsabile per i progetti speciali del collettivo Ulixes e collabora con la scuola di fotografia Apab di Firenze e con Officine Fotografiche a Roma. All’attività fotografica affianca la sua grande passione per la montagna e il camminare, percorrendo lunghi itinerari a piedi, naturalistici, urbani e suburbani.
Cinquantanove tappe, per un totale di mille e quattrocentocinquanta chilometri percorsi. Perché hai intrapreso questo cammino?
Perché me l’ero promesso e perché lo dovevo a me stesso. Avvicinandosi i cinque anni di attività dell’agenzia fotogiornalistica da me diretta, volevo trovare un modo originale e comunicativamente forte per festeggiare l’evento e ho pensato di unire le mie due grandi passioni, il cammino e la fotografia, raccogliendo le mie impressioni in un blog pubblicato dalla rivista Marie Claire che mi ha seguito e aiutato in questa impresa. Il caso ha poi voluto che mi trovassi anche in quello che, forse, è stato uno dei momenti più difficili della mia vita, con una serie di eventi personali e di grandi delusioni da gestire al meglio, in totale solitudine e silenzio. E con delle decisioni importanti da prendere. Il viaggio è stato salvifico per questo, per cambiare punto di vista e percorrere nuove piste anche una volta portato a termine. Viaggiare a piedi è quasi sempre illuminante. L’ho imparato dalla mia famiglia, in particolare da mio padre.
La fotografia è il mezzo che molti usano per viaggiare da fermi. Quali sono i mondi a cui si accede attraverso le tue immagini?
Non so se riesco a fare tanto. Senza dubbio l’idea da un lato mi lusinga, mentre dall’altro mi riempie di ansia. In confidenza ho il terrore di non essere all’altezza delle aspettative altrui. In ogni caso, quando fotografo lo faccio in primis per il vecchio e sano gusto di farlo, in una forma assolutamente privata che spero non risulti autoreferenziale o stucchevole.
Conosco molto bene quel mondo della fotografia giornalistica che quasi sempre ha la voglia, il coraggio e, a volte, la velleità di essere “utile”. La rispetto, la stimo e la studio, ma non credo di farne parte nemmeno lontanamente come autore.
Le tappe della Francigena che attraversano la Toscana sono quindici, quale ti ha sorpreso di più e quale di meno?
Bisogna innanzitutto tener presente che non ho percorso la Via “in modo Romeo”, perché ho risalito l’Italia verso le Alpi e non il contrario.
La Val d’Orcia con le sue colline pettinate, i cipressi e le strade bianche è una sorta di cliché che a volte pare quasi essersi fatto stilema. Senza dubbio è un portato comune per quelli a cui è toccato vivere in questo bizzarro Paese. Ecco, camminare nella Val d’Orcia è immergersi in questo infinito paesaggio della mente. Diventare piccoli personaggi di un quadro collettivo cinquecentesco. Le elucubrazioni esistenziali sono d’obbligo, sia laicamente che religiosamente, e si ha l’impressione di non avere abbastanza occhi e cuore per tutto ciò che ci si srotola davanti, passo dopo passo. In Toscana, invece, la tappa meno esaltante è quella da Altopascio a Lucca. Strade e stradine asfaltate, magazzini, una periferia tonta priva di interesse.
Di sicuro la noia però, viene ripagata dall’arrivo in una città incredibile per storia e bellezza.
Lo stesso dicasi per la tappa seguente, e cioè Pietrasanta, che è una sorta di gioiello avvinghiato a un’atipica piazza centrale e disseminato di gallerie d’arte, nel segno della tradizione dei laboratori artistici legati alla scultura e alle cave di marmo. Pontremoli, infine, pur non essendo un paese memorabile, regala due curiosità: la prima è la copia originale del Labirinto (nella chiesa di San Pietro), che è un il simbolo caro ai pellegrini in viaggio e che ritorna come bassorilievo in moltissimi luoghi sacri per i camminanti soprattutto tra Francia e Italia (si trova anche sulla facciata della Basilica di San Martino a Lucca). L’altra è una bizzarra scultura dedica a Walt Disney raffigurante Pippo, Pluto e Topolino. L’accostamento mi ha molto divertito.
Qual è stato l’incontro che ricorderai anche tra vent’anni?
Difficile a dirsi. Per me è come parlare del libro o del disco che si vorrebbero salvare dall’incendio. Dopo un po’ che si viaggia a piedi, ci si accorge di come si sia recettivi e sensibili verso l’argomento “incontri” e, soprattutto, di come ognuno di noi lo sia in maniera diversa. C’è chi lo attende e chi lo cerca. C’è chi non ci pensa proprio.
C’è anche chi non se ne accorge quando arriva. Per me, ogni viaggio ha un momento alto e uno basso e questi sì che li potrei individuare e raccontare con precisione. Gli incontri, invece, sono molteplici, importanti e profondi in maniera diversa, difficile fare una scaletta. Almeno per me funziona così ed è molto soggettivo.
A pensarci bene, però, la signora Carmen e il suo gatto Nina avranno di sicuro un posto speciale nel mio cuore. Bevendo Coca Cola tiepida (con buona probabilità del 1997), riparati dalla canicola estiva ligure sotto la sua pergola, mi ha spiegato che «stare fermi in Patagonia è come stare su un aereo, la testa la puoi piantare in cielo». E che «anche questo è viaggiare, anche stare fermi». Mi ha dato da pensare.
Che cosa ti ha lasciato la Francigena? Perché dovremmo farci tutti questi chilometri a piedi?
Mi ha lasciato due mesi fra i più belli della mia vita. Semplice. Sul perché farlo potrei elencare un miliardo di motivi: la bellezza dei paesaggi, il camminare nella storia, l’essere eco-sostenibili e slow.
Di sicuro, anche l’aspetto spirituale e di ricerca non sono da sottovalutare e moltissimi camminanti sono pellegrini in senso stretto. Per quanto riguarda me, sto cercando di imparare l’arte della contemplazione. Del godere della luce che muta. Del verde di quell’albero che sembra cambiare soltanto per me. Del farmi emozionare respirando con calma. Dello stare a fissarci su un sentiero di notte, io e un tasso, curiosi l’uno dell’altro, in un istante esistenziale unico, infinito e irripetibile. Imparare a vivere i piccoli enormi dettagli, insomma. Cercare l’infinito nelle pieghe della vita e non nelle parti piane. E farne tesoro.
Qual è l’immagine di questo percorso a cui pensi mentre ne parli?
L’immagine del sottoscritto letteralmente smarrito in mezzo a Villa Ada, a Roma, alle cinque del mattino, appena partito. Dopo un’ora a girare in tondo, e dopo aver tirato giù l’intero calendario, ho pensato seriamente che fosse un segno per farmi desistere dall’impresa. Del tipo: «Cominciamo bene». Sbucato su via Panama e ritrovata la direzione, la disavventura era già un ricordo lontano.
Il tuo prossimo viaggio a piedi dove ti porterà?
Al momento sto lavorando su due progetti diversi di arte e fotografia in cammino. Studio carte, leggo guide e faccio ipotesi. La prima dai Pirenei al Marocco, lungo la Costa Brava e poi a scendere.
La seconda va dalla Puglia alla Calabria tagliando la penisola. Senza dubbio da anni lavoro e fantastico su un Roma-Pechino attraverso la Mongolia, chissà…