Il volume di Martino Nicoletti, Cantare tra le mani, pubblicato dalle Edizioni Lindau di Torino, è una testimonianza coraggiosa sul senso del viaggio, sui molteplici volti dell’islam contemporaneo e sui pericoli del pensiero debole che contraddistingue larga parte dell’Occidente. L’autore, durante il suo lungo soggiorno in Pakistan, ha realizzato interventi di landscape art creando installazioni pittoriche nei villaggi, documentate da alcune foto pubblicate all’interno del libro.
Come sei passato dalle donne giraffa birmane a occuparti degli Ismailiti dell’Hindukush?
Il cambiamento e la metamorfosi sono parte della mia natura. Denominatore comune di tutte le mie esperienze è l’interesse per situazioni dove la complessità dell’uomo e le sue contraddizioni emergono con forza.
Quando mi sono trovato tra le donne giraffa nel Nord della Thailandia, volevo capire come fosse possibile che le donne di un’antica etnia potessero essere trasformate in oggetti a tutti gli effetti: oggetti di attenzione da parte dei turisti, oggetti da fotografare, oggetti in cui la loro stessa umanità fosse in qualche misura annichilita.
Per quello che riguarda gli Ismailiti, ancora una volta sono state la contraddizione e la complessità ad avermi attirato. Volevo comprendere come una comunità sciita, minoritaria in Pakistan, potesse convivere attraverso molte difficoltà con la maggioranza sunnita in un Paese in cui l’avanzata talebana continua a espandersi.
Come hai conosciuto questo popolo e come ci sei entrato in contatto?
Il primo contatto con gli Ismailiti è avvenuto nel 2007 durante un mio viaggio nel Nord del Pakistan, dove mi ero recato per fare alcune registrazioni di musica tradizionale. Da quel momento il mio interesse è aumentato finché, nel 2011, ho deciso di tornare nell’Hindukush per lavorare come artista, fare delle registrazioni della musica mistica di questo popolo e anche per poter aiutare la gente del posto lavorando come insegnante di arte e di inglese.
Che viaggio hai percorso per raggiungere le montagne dell’Hindukush?
Al giorno d’oggi è relativamente facile accedere a queste remote regioni del Pakistan: è sufficiente prendere un volo internazionale dall’Europa, arrivare a Islamabad per poi proseguire con un volo interno o via terra, usufruendo dei molti trasporti locali che esistono in questa zona.
Che accoglienza hai ricevuto da parte della popolazione? Quali difficoltà hai incontrato? Quali sono stati invece gli elementi di maggior vicinanza e contatto?
Gli Ismailiti hanno una lunga, quasi millenaria abitudine al contatto con l’Occidente e con culture differenti dalla propria e sono fedeli a una filosofia che proclama il pluralismo. La loro accoglienza nei miei confronti è stata sin dall’inizio sincera e profonda.
Le difficoltà erano più che altro legate alla situazione attuale del Pakistan, una nazione che sta vivendo profonde lacerazioni dovute in gran parte alla crescente e irrefrenabile ascesa della guerriglia talebana in molte aree del Paese, in particolare in una zona non distante dagli insediamenti degli Ismailiti.
Quando ho dovuto raggiungere la regione di Chitral, dove si trovano i loro villaggi, le autorità locali, per ragioni di sicurezza, mi hanno imposto una guardia del corpo armata come scorta per tutto il periodo della mia permanenza. Questa situazione rende chiaramente l’idea del clima di tensione costante che oramai si vive in quelle zone.
In un mondo islamico oramai attanagliato nel conflitto, come vive questa comunità?
Gli Ismailiti sono una minoranza sciita all’interno di una nazione essenzialmente sunnita. Nel contesto sciita gli Ismailiti rappresentano, a loro volta, una minoranza. È facile, quindi, immaginare come in Pakistan vivano in un equilibrio estremamente fragile e precario.
La sensazione costante è quella di un pericolo incombente, che si avverte non solo a livello di comunità, ma anche nella coscienza stessa delle persone. È molto diffuso, infatti, il timore che, vista la situazione politica, da un momento all’altro la loro esistenza possa subire drastici e drammatici cambiamenti.
Gli Ismailiti di questa zona dell’Hindukush sono essenzialmente contadini, pastori e commercianti come i gruppi correligionari presenti in numerosi Paesi dell’Asia centrale e meridionale. Dal punto di vista spirituale, gli Ismailiti seguono la dottrina dell’Imamato, ossia ritengono che, sin dal profeta Mohammed, gli insegnamenti spirituali e la connessione stessa con il mondo dell’Assoluto siano mantenuti grazie a una catena di discendenza dei suoi rappresentanti diretti, ovvero gli imam. La spiritualità ismailita è poi caratterizzata dalla concezione di una doppia tradizione. Esiste una tradizione cosiddetta essoterica, fondata su dettami religiosi destinati alla maggioranza dei fedeli che comprendono al loro interno elementi giuridici e sociali. A di là della dimensione essoterica si trova poi la dimensione esoterica, o interna, che consente al fedele di instaurare un rapporto diretto, intimo e personale con il divino. Nella dimensione esoterica si trovano fusi in maniera sincretica elementi che, al di là della dottrina islamica, hanno un riferimento diretto alle antiche tradizioni zoroastriane della Persia, culla di gran parte della spiritualità ismailita, del Neoplatonismo e del Platonismo stesso. Questi elementi fanno percepire una stretta prossimità tra il nostro antico retaggio spirituale e le tradizioni di questa remota popolazione.
C’è una foto che secondo te rappresenta in maniera emblematica il loro rapporto con il contesto che la circonda?
Da molti anni il mio lavoro come fotografo e come artista multimediale si basa sull’uso di macchine fotografiche analogiche arcaiche, strumenti fotografici ormai desueti e che, in molti casi, fanno parte di una tradizione che è quasi vecchia di un secolo.
Le foto fatte durante il mio soggiorno tra gli Ismailiti sono semplici accenni, allusioni, piccoli flash sulla vita quotidiana, il paesaggio e la realtà di questo popolo. Più che descrivere alludono, più che rappresentare vogliono essere un suggerimento visivo rivolto al lettore.
Uno scatto del libro è, a mio parere, particolarmente emblematico. È a pagina 67, ed è l’immagine di un uomo che sorride guardando l’apparecchio fotografico e di un altro uomo che, in lontananza, da un sentiero, si avvicina portando sulle spalle un enorme fascio di grano appena tagliato. È una fotografia semplice, poco rappresentativa forse, ma che al tempo stesso testimonia in maniera diretta ed eloquente la dimensione di questa comunità che al giorno d’oggi vive, lavora, soffre e ama ancora in modo arcaico.
Qual è il ruolo delle donne in questa comunità? Svolgono dei ruoli specifici all’interno dell’attività ritualistica? Che difficoltà incontra una donna ismailita nel contesto rurale pakistano?
Nella tradizione ismailita le donne hanno un ruolo di grande importanza. Rispettate nella vita sociale, nella vita quotidiana hanno ruoli che sarebbero inimmaginabili per le donne della maggioranza sunnita in Pakistan.
Loro studiano, non portano il burka, hanno un ruolo attivo nelle discussioni familiari e sociali, condividono con gli uomini la vita rituale e la vita religiosa, si riuniscono con loro in preghiera. Le condizioni di vita in queste zone rurali dell’Hindukush sono particolarmente dure e la donna ha le stesse mansioni dell’uomo e può vantare qui un grado di parità maggiore rispetto al resto del Paese.