foto di Nicola Bertasi e Marzio Villa
Queste immagini, realizzate da te e Marzio Villa, il fotografo insieme al quale hai scattato questo lavoro un anno fa, ci raccontano della piccola e isolata comunità di Maramures. Cosa vi ha spinto fino in Romania?
Siamo partiti da Parigi, dove vivevo l’anno scorso insieme a Marzio Villa, come me italiano espatriato in Francia per lavoro. Siamo partiti con l’idea di raccontare quello che in Europa rimane di magico e catturare qualcosa di non immediatamente comprensibile attraverso il nostro sguardo razionale. Volevamo raccontare con le immagini qualcosa di astratto, che non siamo più abituati a comprendere.
Parlo di astrazione o meglio di realtà astratta perchè nel Maramures non si vive fuori dal tempo ma in un altro tempo, in questo senso per me era importante cogliere e restituire l’immagine della vita in questa comunità.
Il vostro è il racconto intimo e spontaneo di una vallata, della sua gente e delle sue giornate. Avete chiamato il reportage Ultima Luna, cosa evoca per voi questo titolo?
C’è una componente irrazionale che permea le vite delle persone nel Maramures, è qualcosa che ha a che fare con il quotidiano e che è ancora legato alla magia. Parlo della magia dei riti che in queste terre sono ancora vissuti come veri e propri riti di passaggio in cui l’aspetto pagano è ancora molto presente. La luna evoca magia, è legata alla notte e all’inconscio. L’Ultima Luna vuole restituire l’immagine della magia che ancora si percepisce in questi luoghi e che nel resto d’Europa è per lo più scomparsa.
I riti che hai fotografato sono legati alla nascita, al matrimonio, alla morte. Quello che dalle immagini traspare è sicuramente una forte componente religiosa e una onnipresenza della comunità. Ma c’è di più, parlavi di un aspetto pagano, si può parlare di sincretismo religioso?
Sicuramente. A questo proposito ad esempio l’antropologo francese Jean Cuisenier, che ha studiato questa comunità per anni, ne Le feu vivant, sostiene che il rito viene prima del cristianesimo e dell’ortodossia. Questo studioso parlava addirittura di una maschera religiosa messa davanti i riti pagani che renderebbe, nella sua visione, la religione meramente una facciata. L’oralità è la principale caratteristica di questa cultura, non c’è nulla di codificato, ma questo sapere ancestrale oggi si trova mescolato nelle cerimonie religiose.
Raccontaci qualcuno di questi momenti a cui hai assistito.
Durante i vari matrimoni a cui abbiamo partecipato c’è sempre stata dinamica ripetuta. Il rito inizia prima della cerimonia vera e propria, le famiglie della sposa e dello sposo si dividono ognuna nelle proprie case con gli invitati da una e dall’altra parte. Dalla mattina tutti gli invitati iniziano a bere la Palinka, una grappa locale.
C’è un momento della mattinata in cui gli uomini invitano tutti i ragazzi di 13 anni a bere questa grappa a 70 gradi. È ancora mattina e andranno avanti a bere fino a sera, questo è un vero e proprio svezzamento che porta questi ragazzi a diventare adulti durante la cerimonia, li fa entrare in un altro mondo.
Un altro rito pagano legato al matrimonio è la cosiddetta umiliazione della suocera. Ha luogo durante la parte finale della cerimonia ed è legato al distacco che avviene tra lo sposo e sua madre. La suocera partecipa a una messa in scena in cui viene costretta a togliersi i vestiti davanti a tutti, subendo un’umiliazione che corrisponde a quella di perdere il potere sessuale su suo figlio.
Questo mi fa pensare quasi ad un rito che si risolve con una catarsi.
Si è esatto, sono tutti riti di superamento di momenti di rottura nella vita dell’uomo.
Qui esiste ancora quello che la cultura cattolica ha poi cancellato nei secoli. Un utilizzo della messa in scena del dolore al fine di superare lo stesso. La guarigione avviene attraverso un’azione di rottura e di esternazione pubblica. Tutti partecipano al rito dell’umiliazione della suocera perché attraverso di esso lei stessa guarisce il suo dolore per il definitivo distacco del cordone ombelicale.
Parlando di dolore mi vengono in mente i funerali, altro momento molto presente nel vostro lavoro, a questo proposito, com’era percepita la vostra presenza in momenti come quello?
Devo dire che in Romania il rapporto che le persone hanno con l’immagine è positivo e di conseguenza l’approccio ai fotografi e alla macchina fotografica è stato sempre estremamente aperto.
Ovviamente noi abbiamo passato del tempo all’interno di questa comunità instaurando un contatto autentico con queste persone che, a loro volta, ci hanno accolto e accettati. Mai nessuno ci ha impedito di fotografare qualcosa, al contrario. Durante un funerale nel quale siamo capitati per caso nel paese di Budesti, dopo aver seguito la cerimonia e aver parlato con gli amici del defunto, è stata proprio una parente che ci ha spinti nella camera della casa che ospita la salma perché voleva che fotografassimo il defunto. L’officio del funerale con il prete dura solo pochi minuti e successivamente ci si riunisce tutti in una cerimonia collettiva in cui si mangia, beve e si sta insieme. È una cerimonia tutt’altro che triste. Il banchetto in origine era allestito per accogliere persone che venivano da lontano, che magari facevano 50 km a piedi per partecipare al funerale, di conseguenza gli si preparava un adeguata ospitalità.
Come sono percepiti la morte e il lutto? Quanto c’è di diverso rispetto alla concezione del dolore e del lutto come momento intimo e di chiusura, che c’è nella nostra società?
Nel Maramures le persone hanno un rapporto con la morte completamente diverso. Non hanno paura della morte, o meglio, non hanno quella reverenza rispetto al momento della celebrazione della morte di un loro caro.
Il funerale di chiunque è un momento pubblico, non un momento da consumare all’interno della propria cerchia familiare.
La morte non è vissuta come fine ma come inizio di un’altra fase. È l’inizio di un qualcosa di nuovo e la cerimonia ha la funzione di accompagnare il defunto nell’altro mondo.
Bio Nicola Bertasi
Nicola Bertasi nasce a Milano il 13 gennaio del 1983. Fin da piccolo, affascinato dalle possibilità del racconto per immagini, sviluppa una ricerca personale che lo porta a viaggiare in Europa, Medio Oriente, Maghreb, Stati Uniti, Cuba, India. Collabora con il quotidiano il Manifesto, il settimanale Alias, il quotidiano francese Le Monde, Mediapart e altre riviste e istituzioni. Nel 2009 fonda, insieme a un gruppo di amici, una rivista trimestrale di fotografia, Milano città aperta. Espone in diverse gallerie, in Italia e all’estero. Vive tra Milano e Parigi.
Bio Marzio Villa
Nato a Curitiba, italiano, dopo la formazione artistica milanese emigra a Parigi.
Il lavoro di Marzio si basa sulla ricerca della frattura oggi esistente tra il mondo conosciuto e l’inconscio. Effettua diversi reportage tra l’Italia, nei ghetti parigini e nelle banlieue, mostrando un universo sottile, uno spazio fine, una frontiera fra le cose che si vedono e le sottigliezze che solamente si percepicono per trasformarle in specchio delle nostre paure. Con lo stesso interesse per via della sua formazione classica, si interessa al nudo, piu precisamente al corpo. Quest’ultimo lavoro trova spazio espositivo alla galleria parigina Myriam Bouagal.