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“Ma è tua la foto?”, “Come ti sei trovato lì?”
Mi è stato chiesto troppe volte in questi giorni. Troppe immagini ovunque. Non capisci più chi scatta cosa. Chi scatta dove. Da alcuni mesi sono tornato a vivere negli Stati Uniti. Testimone, mio malgrado, di una pandemia e di una ondata di proteste e manifestazioni senza precedenti. Si pensa ad un nuovo ’68.

George Floyd è morto da pochi giorni. Per dirla correttamente è stato ucciso con una manovra al limite, da un agente della polizia di Minneapolis senza mai aver opposto resistenza. La forza delle immagini di un cellulare si innestano nel contesto di una emergenza pandemica ed innescano un pandemonio. Stati uniti, 2020.

Sto andando alla messa in suo onore in un quartiere a nord di Portland. Non so cosa aspettarmi. Siamo ancora in una realtà ritmata da Covid-19, abbiamo toccato il triste record dei centomila morti, oltre un milione di contagi, 40 milioni di disoccupati. Le strade sono a fuoco in decine di città americane. Questa commemorazione, però, ha i toni di una cerimonia pubblica pacifica.

È il momento giusto per abbracciare la città che mi ha cresciuto a diciassette anni. Sono in macchina con una mia amica americana, prima generazione, di origini messicane. Educatrice, una donna che vede oltre; la ascolto come fossi al primo giorno di scuola, appena trasferito. Mi fa capire subito che la questione non è solo legata a temi razziali radicati nei secoli, ma alla non presa di coscienza dell’uomo bianco e della realtà suprematista che sta creando. Prende fiato, guarda il semaforo, cerca il mio sguardo e mi dichiara come fosse ad una conferenza delle Nazioni Unite, che lei e molti altri nativi, come si definisce, sono e saranno al fianco di questo movimento perché la gente tralascia da troppo tempo un aspetto fondamentale. Mi gela dicendo “l’ America è stata costruita con il lavoro dei neri sul sangue degli indiani”. Ha un tono solenne, guida animata all’ italiana, mano sul cambio automatico. Parcheggia.

Arriviamo al Peninsula Park, uno spazio verde cittadino in un quartiere di cui è rimasta solo memoria dell’ identità black che lo viveva. Gentrificato negli ultimi 15 anni. Polverizzato. È la prima volta, dopo mesi, che inizio a vedere così tante persone tutte insieme. Mi viene automatico mettere la mascherina. Lo noto, mi preoccupa. Troviamo un posto a distanza dove sederci. Mi sembra di capire che sia una organizzazione di giovani, la PNW Youth Liberation Movement, ad aver invitato dei rappresentanti della comunità afroamericana di Portland a parlare. Forse il Movimento è più una piattaforma che vive sui social la sua esistenza liquida. È talmente improvvisata che non c’è un vero palco. Nè delle casse.

Gli USA da anni sono una costante conversazione su identità e generi. Raquel usa parole nuove, è tutto un appunto. Sto indietro, eppure pensavo di stare avanti. Sbotta: “cosa pensi, che noi LatinX restiamo a guardare?” Cado dal pero. “Chi sono i LatinX?” i miei occhi chiedono. Paziente, mi descrive un neologismo di genere neutro, un termine ombrello per definire i Latinos americani, che vivono negli Stati Uniti, egli, ella e loro. Mi punta, sguardo determinato: “È naturale che siamo al fianco di questa protesta. Perchè tieni a mente, prima di All lives matters, dobbiamo ricordare al mondo che BLACK lives matter first! Solo dopo ne faremo una questione BIPOC”, aggiunge.

BIPOC (Black, Indigenous, People of Color) è un acronimo che ho ascoltato spesso negli ultimi mesi. È un termine coniato per creare solidarietà tra le persone di colore; sottolinea intenzionalmente che non tutte le people of color si confrontano con lo stesso livello di ingiustizia. E vuole estendere il significato dell’unione POC. La questione linguistica si fa violenta anche lei. Istitutional and systemic racism. Questo è stato verbalizzato al tavolo della conversazione. Ripetuto sino allo sfinimento, spesso affiancato a racial inequality and police brutality. Con le parole si dà vita a nuovi mondi: disenfranchisment è uno di questi. Espropriare il senso di appartenenza e negare il diritto di voto.

La questione è complessa e delicata, questo non significa che vada rimandata. Forse tra le prime azioni, bisognerebbe ripartire dall’educazione dei bambini. A scuola e a casa. Avviare un dialogo interno con noi stessi. Portare consapevolezza, partendo dal basso dei tuoi figli. Questo non è un problema solo americano. Per quanto impreparati possiamo sentirci, prendiamo atto del razzismo che intesse le immagini del mondo che viviamo. È un problema umano. Va risolto ora, sfruttando le accelerazioni della storia.

Sono irrequieto. Iniziano a parlare con un debole megafono da quello che non è un palco, arriva sempre più gente che si siede distanziandosi vicina. È fortunatamente una giornata di primavera, in questa che è una delle città più piovose d’ America. Mi alzo, mi prudono le mani di creatività. Voglio scattare in giro. L’ho sempre fatto. Non mi sento fuori luogo perché sono arrivato da poco. L’energia è palpabile.“Black is Magic. Black is Magic” la folla intona.

Spunta una bandiera enorme della Palestina. Sembra stonare sullo schermo delle mie convinzioni. Lascio sfocare l’immagine in sottofondo. L’atmosfera si riscalda, il microfono è in mano a carismatici oratori vestiti da battaglia. È come soffiare su un falò energetico. Mi avvicino sempre più verso il cuore della fiamma. Una moltitudine di persone davanti a me. Un prato di americani bianchi che ha sentito il richiamo all’elaborazione del lutto. Portland, una delle città più progressiste d’ America è anche la più caucasica, parola di censimento. In molti hanno portato il loro mini striscione portatile. L’individualismo di questo paese lo vedi anche alle manifestazioni dove ognuno, educato, vuole dire la sua. Un mare bianco, che agita scritte nere. Nessuno fuma nulla. Il ronzio di un elicottero sopra le nostre teste. Contegno, cordoglio, rabbia e pandemia tutto intorno.

R.I.P. Rest In Power dice l’epitaffio vicino ai fiori. Sento una forza magnetica che mi vuole trascinare lì su. Entrare nello sguardo. Vivere il loro punto di vista. Provare dolore. Decolonizing identity. Liberarsi dal peso dei propri oppressori. La Palestina. Tutto torna. Gli odori del mercato di Hebron. Rompere la logica del palco. Sovvertire la prospettiva. Salgo di lato. Occhi a cinepresa. Loro consapevoli. Incazzati. Esasperati. Ancora fiduciosi. Colui che parla fa cenno di inchinarsi. Pugno al cielo, scandisce con voce potente “Black Power”. Insiste, sempre più forte. La folla in ginocchio tira fuori tutta la rabbia: “Black Power!”. La pezza davanti la bocca che mi rende invisibile. Mi faccio spazio, nessuno pensa che io sia fuori luogo, me lo sento. Tutti servizio d’ordine di loro stessi. Sono stordito dalla mia presenza in questo fotogramma di storia. Loro diventiamo noi. “Black Power! Black Power!”. Memorie visive di Genova G8 e Praga IMF. Prendo una grande boccata di anidride carbonica dalla mascherina, in apnea, energie di consapevolezza, l’oratore passa il megafono ad una ragazza. Schiarisce la voce: “Equality, not revenge!” irrompe. Ho l’ America davanti agli occhi. “Lò, non hai colore, sei iper-visibile, scatta!”. La Storia è dappertutto. Prendo fiato. Obiettivo mai obiettivo in mano.

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Portland June 2020

di Lorenzo Fresh

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Redazione the trip
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