Sono nata in Pensilvenya, un anno dopo la battaglia di Gettysburg.
Ho vissuto agli albori dell’industria petrolifera statunitense, ma questo non c’entra molto con la mia storia. Sicuramente ha più senso dirvi che sono cresciuta nel periodo in cui nacquero i primi movimenti operai. Questo sì che ha a che fare la con la mia storia, perché nel corso della mia carriera mi sono spesso interessata della condizione delle lavoratrici in fabbrica.
Il mio percorso da giornalista iniziò proprio quando risposi ad un articolo scritto da Erasmus Wilson sul Pittsburgh Dispatch, il quale sosteneva come le donne lavoratrici fossero una mostruosità del sistema, un pericolo che avrebbe potuto scardinare l’equilibrio dei ruoli e minacciare un apparato culturale, dove la donna per natura doveva rimanere entro i confini imposti dalla società e appartenere solo alla sfera casalinga. La mia aspra risposta firmata con lo pseudonimo di Lonely Orphan Girl si trasformò in un’opportunità lavorativa e io diventai una penna di punta del giornale.
Lavorai sempre sotto mentite spoglie per testimoniare e denunciare condizioni sociali e politiche scorrette. Dal Messico come corrispondente estera, scrivendo sulla dittatura di Porfirio Díaz, fino all’internato nel sanatorio femminile Women’s Lunatic Asylum nell’isola di Blackwell, dove mi finsi pazza. Lì vidi con i miei occhi un luogo di reclusione non solo per le degenti realmente affette da malattie psichiche, ma anche per donne indigenti, incomprese o rifiutate dalle società, le quali vivevano relegate e in condizioni disumane. Donne che per il mondo non esistono.
Dicono che io sia colei che ha inventato il giornalismo sotto copertura, il vero giornalismo investigativo e in effetti prima di me nessuno si era mai camuffato sotto false vesti per scrivere un’inchiesta, immedesimandosi nei protagonisti per raccontare un contesto sociale in modo puramente oggettivo.
Tra i miei molteplici incarichi, quello per cui però sono rimasta impressa nell’immaginario collettivo è stato il mio viaggio intorno al mondo, un viaggio che secondo l’opinione del mio editore solo un uomo sarebbe stato in grado di compiere.
Il 14 novembre del 1889 mi imbarcai da Hoboken sul transatalntico Augusta Victoria trasformando in realtà il romanzo di Jules Verne (il quale ho anche incontrato), circumnavigando la terra in un viaggio lungo settantadue giorni, sei ore, undici minuti e quattordici secondi per circa 40 mila chilometri. Il mio diario Around the World in Seventy-two Days ebbe grande successo, forse perché prima di allora nessuna donna aveva mai compiuto un viaggio così lungo senza essere accompagnata da un uomo, forse perchè prima di allora a nessuna era stato concesso.
Sono nata da una famiglia di 14 figli, ho perso un padre che ero ancora una bambina, ho affrontato le difficoltà economiche e ho combattuto contro un patrigno violento. Nessuno di questi avvenimenti ha compromesso il mio futuro, perché io sono una donna libera dalle opinioni, dalle condizioni esistenziali e dall’apparato sociale imposto. Io sono Nellie Bly, prima esploratrice e mostruosità del sistema.
Liberamente ispirato alla vita di Nellie Bly alias Elizabeth Jane Cochran
di Samyra Musleh