Diario di viaggio realizzato a novembre 2017 a un anno esatto dalla morte del leader maximo cubano.
di R.S.
Dicono che il viaggio abbia tre vite: quando lo sogni, quando lo vivi e quando lo ricordi.
Con la Isla grande avevo un appuntamento da vent’anni, da quando Sergio mi regalò la guida per il mio compleanno.
Ci arrivo con il timore che sia tutto cambiato, come ripetono gli amici che ci sono stati prima di me. La mia paura è di veder tradito un sogno di uguaglianza. Mi disturba il pensiero di scoprire un luogo diverso da quello che avevo immaginato e accorgermi che la giustizia di classe è un ideale sbiadito, resistente solo nelle cartoline con l’icona di Che Guevara vendute in ogni dove. Ma le coincidenze mi sorprendono. Pochi giorni prima di partire la notizia della morte di Fidel Castro. Un vero colpo. Come titolano i giornali di tutto il mondo con Fidel se ne va l’ultimo grande personaggio del Novecento. Lo siento mucho. Ma dentro di me lo sento pure come un appuntamento con la storia e il ritrovo è l’ Havana. Proprio lì nella sue strade, nelle case aperte, lungo il Malecón, nel cuore della Plaza de la Revolución, tra la gente. È il momento, questo è il mio viaggio e io sto salendo, da sola, sull’aereo che mi porterà dove da tempo desidero andare. Atterro qualche sera dopo l’annuncio ufficiale, nel pieno del duelo, con un’atmosfera strana e ovattata che mi accoglie. Poche luci in giro, nessuna musica e niente alcolici. Il giorno seguente provo caparbiamente a cercare una birra fresca e scopro che è impossibile comprarla: l’hanno persino tolta dagli scaffali del supermercato in rispetto dell’ordinanza governativa. Vale, así es. Ho tanto da girare e parto dal mare.
Prima di cominciare la mia esplorazione mi devo sciacquare gli occhi con il blu intenso dell’oceano, solo così posso sentire che tutto è reale e addirittura fingermi una habanera. Prendo la strada che scende fino al Malecón. Cammino un po’, mi guardo intorno, mi fermo e finalmente mi siedo sul muretto. Le gambe a penzoloni, dando le spalle al traffico, gli scogli un metro più sotto ai miei piedi. Nell’ampia carrettera vedo passare le macchine anni cinquanta dai colori sgargianti e i coco taxi. C’è chi passeggia, chi corre e c’è anche un pescatore improvvisato che sembra aver scelto il suo posto in base a un preciso criterio scaramantico. Chissà se quel numero gli porterà fortuna… Mi rialzo e da lì risalgo all’interno del Vedado, tra le vie meno frequentate. Mi avventuro fino a raggiungere il quartiere Callegon Hanmel. È una strada in mezzo a delle palazzine basse, vicina ad una scuola. È la zona degli Orishas dove ci si trova la domenica per ballare l’afro-rumba, ci sono le installazioni degli artisti, un atelier e una paladar dove vendono succhi di frutta fresca. C’è tutto un brulicare di frequentatori del posto pronti ad offrirsi come guida per gli avventori. È estremamente difficile divincolarsi dai cubani che attaccano bottone: iniziano raccontando particolari che non sono nelle guide ufficiali e con la loro parlantina riescono quasi sempre a farsi lasciare qualche cuc dai turisti.
I murales sono bellissimi e sgargianti e mi vien voglia di fotografarli. Questo gesto, apparentemente banale, tradisce il mio tentativo di confondermi tra la gente locale. Ormai è chiaro che sono una turista e per questo non posso più sottrarmi alla regola (non scritta) del dare una mancia. Pochi secondi dopo il primo clic, infatti, mi si avvicina Celìa. È una bella donna mulatta, sulla quarantina o forse anche qualcosa in più, e indossa un delizioso abito bianco con merletti. Inizia a raccontarmi del progetto di arte della scuola, descrivendomi minuziosamente i lavori degli alunni e delle alunne. Mi accompagna per buona parte del percorso fino al chiosco, all’angolo della strada, dove una sua amica vende collane di perline contro il malocchio. Sono graziose e colorate, in più tengono lontana la mala suerte e questo rappresenta un motivo in più per non lasciarsi sfuggire l’acquisto! Dopo aver allungato a Celìa un paio di cuc, esco da Hanmel e proseguo verso l’Habana Vieja in mezzo alle case dagli intonaci scorticati, quasi tutte con le porte aperte.
Qui si percepisce subito quanto le persone siano socievoli e le case lo dimostrano. Auténtica Cuba recita la pubblicità del tour operator, che oltre a essere un marchio registrato è la più appropriata definizione di questo paese e delle persone che lo abitano. È vero ci sono i luoghi blasonati, quelli frequentati dai turisti come tappa obbligata. Del resto, come insegna Ernest Hemingway, mica si può andar via senza farsi un mojito alla Bodeguita del medio e un daiquiri alla Floridita? Va fatto sì! Ma non per questo si deve alloggiare all’Hotel Nacional. Lì ci vado solo per collegarmi a internet e prendere un caffè. Clienti da tutto il mondo bevono bibite in bicchieri carichi di ghiaccio o camminano nel giardino, in mezzo a un gruppo di pavoni che si muovono con tranquilla disinvoltura.
Per dormire ho scelto di affittare un appartamentino al Vedado, non molto distante dal Nacional. Mi casita tutta per me, veramente autentica e con un affaccio da cui vedo vicinissima la scritta dell’ Habana Libre, il mio faro di riferimento per ritrovare la direzione per la Calle 23, anche quando fa buio. Due giorni dopo, di buon mattino, mi carico lo zaino in spalla per recarmi al terminal centrale del Viazul e salgo sull’autobus che porta verso Viñales e Pinar del Rio. Una valle rigogliosa, dove si ergono i mogotes a puntellare la pianura dove la natura colora di verde la terra rossa. Decido di lanciarmi in un’avventura nuova e prenoto una gita a cavallo per il pomeriggio. L’esperienza è molto divertente. So bene che l’indomani ne risentirò con fastidiosi dolori al fondoschiena, ma nel qui e ora mi gusto l’alternanza tra trotto e passeggiata e tutta l’emozione da neofita del mondo equestre. La guida mi porta in una delle zone in cui viene coltivato il tabacco e un giovane campesino mi illustra tutte le fasi della fabbricazione dei sigari. Ne prepara uno sul momento, arrotolando le foglie disposte diagonalmente e chiudendo la parte esterna con un po’ di miele. Il sapore del sigaro è dolce e anche l’odore del fumo è piacevole, morbido, completamente diverso dai sigari toscani.
La sera ceno con una ragazza olandese conosciuta nell’ autobus. Anche lei viaggia da sola, ha due settimane libere a disposizione e deve ancora ben definire le tappe del suo percorso. Qui non è un problema improvvisare, tutto è molto tranquillo e sicuro e se c’è da aspettare questo non rappresenta un problema. Trascorro la notte in una casa particular e la mattina seguente, di nuovo sull’autobus, mi sposto in direzione sud-est. Una breve sosta a Cienfuegos e poi verso Trinidad. Questa è una cittadina coloniale molto caratteristica: case colorate, strade fatte di ciottoli, carrozze a cavallo e bici-taxi con cui turisti e locali si muovono, e la fiesta che tutte le sere anima la scalinata della Casa de la Música.
Nei due giorni di permanenza riesco a fare un trekking lungo il sentiero Cimarrones de Javira – con tanto di bagno nelle piscine naturali del parco – e a rilassarmi al mare. Nel pomeriggio al costo di 10 cuc Carlos, un ventenne che guida un bici-taxi decorato con bandiere e adesivi, mi porta in una piccola spiaggia dal nome La Boca, non molto conosciuta, abbastanza vicina al centro cittadino e meno frequentata della Playa Ancón. L’acqua è alla temperatura perfetta e immergersi è meraviglioso. Ci sono pochissime persone e la luce del tramonto rende tutto ancora più suggestivo. Prima di rincasare nella casa particular, chiedo a Carlos di portarmi in qualche posto non turistico, dove mangiare qualcosa di tipico e magari pagare con pesos cubanos. Non devo aggiungere altro, sa perfettamente dove andare e inizia a pedalare mentre io mi godo la musica della radio che ha messo a tutto volume. Arriviamo in una strada poco illuminata,scendiamo e lui bussa alla finestra di una casa. Una donna anziana apre e ci dice di aspettare. Dopo circa dieci minuti, senza che avessimo aggiunto altro, ritorna con due piatti con riso, carne, fagioli e insalata tutti insieme. Ci sediamo a terra, sul gradino di una porta di fronte alla casa e ceniamo. La signora non vende birre e ci consegna decisa due bicchieri di acqua. È una cena un po’ accampata, però mi interessa chiacchierare con Carlos. Mi racconta che sogna di andare a Miami e raggiungere un suo cugino più grande, ma che sua madre non glielo permette.
Il giorno dopo mi giro per bene la cittadina dallo spirito western e al calare del sole mi concedo un fresco mohito. Mi rendo conto che finora, quasi quotidianamente, ho consumato almeno un pasto con fagioli neri accompagnati con riso e spesso anche con pezzi di carne di maiale. Ho assunto una quantità di legumi come mai nella mia vita, con una tale concentrazione da far invidia a un film di Bud Spencer e Terence Hill. Anche la frutta tropicale l’ho mangiata con una certa assiduità: ma è impossibile provare monotonia assaporando il platano, il mango, l’ananas o la maracuja! Ho un ultimo giorno da trascorrere nella capitale. Di buon mattino preparo il mio zaino e vado alla stazione del Viazul. Dalle finestre delle case, sempre aperte, il sottofondo dei servizi alla radio e alla televisione che commentano il funerale del Comandante e il grido di piazza Yo soy Fidel ripetuto in loop. Ci impiego circa cinque ore a rientrare nella capitale. È quasi ora di pranzo e nella Calle Infante mi hanno detto che c’è un ristorante dove cucinano un’ottima aragosta accompagnata da yuca fritta. Ancora poche ore mi separano alla fine del mio viaggio e ho tutta l’intenzione di onorare come si deve il mio arrivederci. Sorseggio un’ultima birra passeggiando per un pezzo del Malecón mentre nel cielo, sopra la mia testa, passa un aereo e io so che il prossimo sarà il mio.