servizio fotografico di Michela Amadei | michelamad.com
Gjaku inë i shprishur: «Sangue nostro sparso»
Gli arbëreshë, chiamati anche italo-albanesi, albanesi d’Italia, greco-albanesi o arbereschi, sono una minoranza etno-linguistica stanziata nell’Italia meridionale e insulare a partire dal Medioevo. Si fa risalire il loro flusso migratorio al periodo che va dal XV al XVIII secolo, in seguito alla morte dell’eroe nazionale albanese Skanderberg e alla successiva invasione dell’Albania, prima da parte dell’Impero Bizantino e poi di quello Ottomano, che fece mutare la religione locale da cristiana ortodossa a musulmana. Per questo motivo gli arbëreshë, al contrario degli albanesi, mantengono il rito ortodosso e tutta una serie di particolarità linguistiche e tradizionali.
I primi che approdarono in Italia erano perlopiù soldati al servizio del Regno di Napoli, del Regno di Sicilia e della Repubblica di Venezia. Stanziatisi in zone e villaggi isolati, gli arbëreshë fondarono o ripopolarono quasi un centinaio di comunità attuando nel meridione una nuova fase di espansione demografica che continuò per tutta la prima metà del Cinquecento.
Sulla reale consistenza numerica degli italo-albanesi in Italia non vi sono cifre sicure, gli ultimi dati statisticamente certi sono quelli del censimento del 1921, da cui risulta che erano ottantamila, e quello del 1997, quasi duecento mila, anche se nel 1998 il Ministero dell’Interno stimava la minoranza albanese in novantotto mila persone.
La lingua parlata dagli arbëreshë è l’arbërisht, varietà antica del tosco (toskë), dialetto meridionale dell’albanese. In qualche centro è misto con inflessioni tratte dal ghego (gegë), il dialetto parlato nel Nord dell’Albania, con il greco antico e con contaminazioni con i dialetti meridionali nate durante la permanenza in Italia. La comunità arbëreshë appartiene a quel gruppo di minoranze di antico insediamento che hanno poca contiguità territoriale con il ceppo d’origine. È infatti, una vera isola linguistica che ha tramandato, attraverso i secoli, e perlopiù oralmente, il proprio patrimonio linguistico, culturale e religioso. La lingua arbëresh dal 1999 è pienamente riconosciuta dallo Stato Italiano come lingua di minoranza etnica e linguistica, particolarmente nell’ambito delle amministrazioni locali e nelle scuole dell’obbligo.
Elementi strutturali della cultura arbëresh delle origini sono giunti a noi e mantengono una loro forza di rappresentazione dei valori dell’organizzazione delle comunità, solo negli ultimi anni, con l’avanzare di un modello di cultura turbo capitalistica stanno lentamente scomparendo. Questi elementi sono: la vatra (il focolare), centro intorno al quale ruota la famiglia; la gjitonìa (il vicinato), l’ambito sociale al di fuori della casa, elemento di continuità tra la famiglia e la comunità; la vellamja (la fratellanza), rito di parentela spirituale; la besa (la fedeltà) all’impegno, rito di iniziazione sociale con precisi doveri di fedeltà alla promessa fatta.
Michela Amadei è una fotografa romana di madre arbëresh e di padre italiano. Da anni dedica il suo lavoro alla rappresentazione di tradizioni popolari e mitologie usando una particolare tecnica fotografica. Nei suoi progetti ritrae il mondo come fosse un luogo fatato e antico e i suoi scatti sembrano dagherrotipi scampati alle sabbie del tempo approdati alla nostra cultura digitale. Le sue fotografie raccontano e svelano l’arcaico e il sacro che ancora alberga dentro le nostre coscienze. D’altronde, lo scopo delle tradizioni, dei miti e dei riti è quello di tessere il razionale con l’irrazionale, le istanze della modernità e del cambiamento con quelle della tradizione e dell’identità.
Nella serie dedicata alle tradizioni popolari arbëreshë sono rappresentati i riti che coinvolgono le classiche tappe della vita, quelle che l’antropologo Arnold Van Gennep ha denominato come liminali o di passaggio da uno stato all’altro: il fidanzamento come momento dell’iniziazione all’età adulta, il matrimonio e infine la morte che cela in sé il suo ontologico contraltare, la nascita. Dai suoi scatti emergono anche alcuni elementi simbolici che compaiono in questi riti, anch’essi comuni alla maggior parte delle culture: in particolare il fuoco e il cibo.
Nella prima fotografia si vedono due ragazze immerse in una nuvola di fumo e scintille, ridono e scherzano perché stanno festeggiando la notte del Capodanno in cui i giovani si riunivano per onorare la fine di un ciclo e l’inizio di un altro. In quella notte, per dichiararsi a una ragazza, un pretendente doveva portare davanti alla casa della sua amata una torcia accesa, così da manifestarle il suo amore, qualora lei avesse ricambiato avrebbe tenuto la torcia con sé, in caso contrario l’avrebbe riportata spenta davanti alla casa dello spasimante.
Il simbolismo legato al fuoco è vastissimo, non è un caso che la sua scoperta sia considerata come uno dei punti di snodo per l’umanità, una fondamentale tappa evolutiva, ben esplicata dal mito della forza creatrice di Prometeo. Questo elemento racchiude in sé sia aspetti positivi come la passione, che distruttivi, come la collera, sia materiali che spirituali.
Nel rito arbëresh la fiaccola rappresenta il fuoco dell’amore e della passione. A tale elemento, soprattutto nelle culture agrarie è associata anche una funzione purificatrice, in questo senso probabilmente la fiaccola rappresentava anche la purezza del sentimento e non solo la sua irruenza. Come ogni simbolo anche questo ha una natura ambigua, così alla concezione di purezza si unisce una caratterizzazione tipicamente sessuale, soprattutto quando il fuoco è ottenuto per sfregamento e non per percussione.
La soglia invece in quanto luogo di passaggio rappresenta simbolicamente la possibilità di un’alleanza, di un’unione e tale possibilità si realizza se chi si presenta viene accolto.
Per analogia la soglia, in quanto apertura verso un luogo oscuro, può anche simboleggiare i genitali femminili e la fiaccola, dalla forma fallica, quelli maschili. Il rito rappresenta così gran parte degli aspetti che riguardano l’amore e l’unione sessuale tra due persone: la penetrazione, la forza creativa, la purezza del sentimento, ma anche gli aspetti più oscuri, come la follia amorosa o la forza distruttrice delle passioni smodate.
Nella seconda e terza fotografia è raffigurato il matrimonio.
La prima delle due ritrae la preparazione della sposa, sul letto si possono notare delle monete e dei confetti regalati dai parenti, mentre il materasso, almeno nella gjitonìa da cui proviene la nonna di Michela di Falconara Albanese, era preparato con lana e foglie di pannocchia. Il letto partecipa del doppio significato della terra: esso dona e assorbe la vita e si inscrive nella simbologia più ampia legata all’orizzontalità. In questo caso l’accento è posto sul suo aspetto di generatore della vita e di culla dell’amore, non è un caso quindi che il materasso sia riempito di lana e pannocchie, quali simboli di fecondità e prosperità.
Ci sono anche delle evidenti ragioni pratiche dietro questa usanza, ma il fatto che il materasso fosse creato ex novo per accogliere la nuova coppia ribadisce come questo sia simbolo di fecondità e buona sorte e della creazione di un nuovo nucleo, rappresentato dalla novella coppia e dalla loro probabile prole. .
La lana è anch’esso un chiaro richiamo alla prosperità in una società agricola e pastorale, la sua simbologia è invece molto complessa e varia da cultura a cultura, in quella cristiana è associato alla purezza dell’agnello da cui si ricava ed è fondamentale nella realizzazione del Pallio, la stola che poggia sulle spalle del papa e dei cardinali.
I confetti sono simbolo di opulenza sin dall’antichità, erano già diffusi in epoca romana e medievale dove lo zucchero era sostituito con il miele. Il colore bianco richiama alla purezza e la mandorla che vi è contenuta all’unione in quanto composta da due parti unite.
Nelle due foto è sottolineato un aspetto particolare di questo rito indicato dall’espressione della sposa e dalle parenti che la stanno vestendo, tutte e tre velate di nero con un chiaro significato simbolico a richiamare le tre Parche o Norne, ineluttabili dispensatrici del destino.
In entrambe, la sposa non è, come si potrebbe supporre, raggiante e felice di convolare a nozze, anzi la sua espressione è piuttosto triste e assente. Ciò per sottolineare che, nella quasi totalità dei casi, i matrimoni erano combinati. Il matrimonio era un dovere a cui una donna doveva sottostare per il bene della famiglia e non un piacere o una sua libera scelta. L’atmosfera che permea gli scatti è decisamente soffocante e, soprattutto nella seconda di questa coppia, si tinge di un senso di vuoto, sospensione e abbandono come se la donna si fosse resa distante e intoccabile per poter sopportare il suo fardello, un’espressione che potrebbe ricordare quella di un martire o di un condannato a morte che, a pochi passi dal patibolo, ormai certo della sua fine, si abbandona al triste destino.
Altro particolare che emerge dalle due foto è la capigliatura della sposa chiamata tuppo anche in arbërisht, mutuando la parola dall’italiano il quale a sua volta la deriva dal francese toupet.
L’ultima coppia di fotografie è invece dedicata al funerale e al culto dei morti, ideale conclusione del viaggio che Michela compie attraverso le tradizioni dei suoi avi.
Prima del funerale la salma veniva posta sul tavolo e i parenti la vegliavano per un giorno intero bevendo alcolici e caffè così da accompagnare il defunto nel suo ultimo viaggio verso l’oltretomba. Le pratiche di composizione del corpo e d’inumazione variano a seconda del contesto culturale, ma in tutte è presente un periodo in cui la salma è vegliata. In molte culture la famiglia in lutto non può cucinare, non è né del mondo dei vivi né di quello dei morti, è in una una posizione che è in bilico tra il disordine portato dalla morte e l’ordine stabilito dalla comunità, tra il puro e l’impuro, per questo nella casa non si può accendere il fuoco e attuare l’operazione alchemica della cottura dei cibi.
Così avviene anche in quella arbëresh, dove i parenti e i membri alla stessa gjitonìa si recano in visita portando bevande e cibo cotto, visto che nella casa del defunto non si accende il fuoco per almeno tre giorni, insieme a viveri da dispensa come farina, zucchero, conserve e cibi secchi. In alcuni casi, soprattutto quando si tratta di una famiglia benestante, si chiama una banda composta da tamburi, organetti, trombe e raramente cornamuse per suonare le tristi musiche dedicate a questo evento, questo aspetto è rappresentato, secondo il realismo magico a cui Michela si rifà, dalla presenza del giocoliere con il fuoco.
Michela stessa racconta che il bisnonno volle un funerale celebrato senza funzione liturgica, ma pretese che la processione fosse accompagnata da una banda, dimostrando un’attitudine pagana.
Tutte le culture hanno tempi, luoghi e ritualità legate al culto degli antenati e anziani. In quasi tutte quelle europee la ricorrenza dedicata ai defunti cade tra il primo e il secondo giorno di novembre, in quella italiana e in quella arbëresh è il 2 novembre o Commemorazione dei defunti. In quella data nelle comunità arbëresh a tavola si apparecchia un posto in più anche per loro.
Nella storia che Michela narra per immagini, il defunto è la sposa che decide di uccidersi piuttosto che sottostare al matrimonio combinato dai suoi parenti. Per questo motivo la fotografa decide di rappresentarla stesa sul tavolo con ancora indosso il vestito di nozze e ci mostra il suo spasimante che si dispera nel giorno della Commemorazione dei morti davanti al posto apparecchiato e vuoto.
Così si chiude idealmente questo cerchio, che rappresenta il divenire di ogni individuo, dalla culla alla tomba, un ciclo che deve essere tale per potersi perpetrare, in cui ognuno deve essere disposto a cedere il passo a chi viene dopo, contento e soddisfatto di aver potuto partecipare di questa incredibile esperienza che è la vita.
Il lavoro di Michela racconta il patrimonio culturale della comunità italo-albanese di Falconara Albanese, che rischia lentamente di scomparire. La cultura arbëresh è prettamente orale e, come ha fatto notare l’antropologo Franco Fileni nel suo Analogico e digitale (1997):
«Attualmente tutto ciò che è stato descritto si va disfacendo piano piano: le strutture dei paesi stanno cambiando, l’emigrazione impoverisce le superstiti gjitonie, che si stanno indirizzando sempre più verso il luogo in cui giacciono le vestigia del passato: la memoria».
Così Michela, attraverso la sua opera creativa, si pone come nume tutelare di queste tradizioni e, come accade nelle vere opere artistiche, partecipa del sacro per infonderne una scintilla anche in noi.