foto di Luca Napoli | lucanapoli.altervista.org
Questa è una storia dei primi del Novecento. È la storia della baronessa Erminia De Meo, che in origine era de mea, che vuol dire roba mia, la mia bisnonna, di Giuseppe Franco, mio bisnonno, e della Taranto antica.
È la storia di un viaggio dalla campagna tarantina, dove i fratelli Franco amministravano quattordici masserie, verso la città. «La tua bisnonna non amava vivere in campagna. E ogni sua decisione era un ordine. La chiamavano il carabiniere», ride mia zia mentre ricorda il rigore caratteriale della nonna.
Per ottantamila lire, Giuseppe Franco le compra una palazzina di tre piani in Via Pupino 84, una traversa di Via di Palma, nella Taranto nuova. Dalla terrazza del terzo piano la baronessa vede il mare, il Mare Grande.
La storia che mi racconta zia Maresa, la sorella di mio padre, sembra uscire dalle pagine del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, o da una novella di Giovanni Verga, e non manca un pizzico di realismo magico dei romanzi della sudamericana Isabel Allende. Ha il sapore delle saghe familiari dell’Italia del meridione, di baroni titolati con le tasche vuote, di proprietari terrieri e delle loro fruttuose masserie, di figlie che all’ombra delle stanze delle loro nobili case passano il tempo a ricamar merletti, di figli morti nella guerra del 15/18, di contadini coi forconi in mano, della rivoluzione socialista e della nascita del proletariato.
Sembra di vedere le immagini del film Novecento di Bernardo Bertolucci, anche se lì siamo al Nord d’Italia, e in questa mia storia a Sud.
Quando ricorda il giorno che i contadini della Masseria La Rondinella, la più grande delle quattordici, si sollevarono contro i padroni Franco, la voce di mia zia incalza. I contadini, stanchi di essere trattati come bestie da soma, dopo avere ucciso con un colpo di pistola Marino, lo “zio buono”, così lo chiamavano i nipoti, marciarono fino a casa del bisnonno. Lì ad attenderli c’era donna Erminia. La baronessa li aspettava con un fucile a canne mozze affacciata dal terrazzo del terzo piano della sua palazzina in via Pupino. «Dall’alto li teneva tutti a bada», dice ridendo mia zia. Era il Quarto Stato che avanzava e chiedeva rispetto per i propri diritti.
La Taranto che mi racconta zia è la Taranto della nobiltà e della miseria della baronessa Erminia, delle passeggiate da Via Pupino verso Taranto Vecchia per festeggiare il patrono della città, San Cataldo, nella omonima Cattedrale in Piazza Duomo.
La Taranto dei viaggi in nave verso l’Isola di San Pietro, quando lei, zio Bibbi e zia Gioia (mio padre non era ancora nato, Cosma, era così che si chiamava) potevano godere delle spiagge di questa meravigliosa isola, demanio militare fino a pochi anni fa, perché mio nonno, Vittorio Vespa, era Ufficiale di Marina.
La Taranto della spiaggia di Gandoli, con la sua bella pineta. Lì dove un tempo Giuseppe Franco coltivava i suoi meloni.
«Di quel tempo ci restano solo i racconti e i ricordi – continua zia – perché con l’avvento del ventennio fascista abbiamo perso tutto. Le masserie sono state confiscate».
In realtà una masseria continuerà ad essere gestita fino agli inizi degli anni Cinquanta. Azienda agricola che verrà poi espropriata per costruirci il IV centro siderurgico del consorzio Ilva. Il progresso era inesorabilmente arrivato a Taranto. Iniziava così l’era dei diritti degli operai, della difesa del posto di lavoro ad ogni costo, di un disegno sviluppista che ha trattato il territorio come una risorsa da depredare.
Dagli anni Sessanta quel paesaggio rurale si è trasformato in colonia industriale, da quando è stato costruito l’impianto siderurgico dell’Ilva, il mostro che è diventato il cancro metaforico e reale della città più avvelenata d’Europa, facendo aumentare in modo esponenziale i casi di tumore tra i suoi lavoratori e gli abitanti del quartiere Tamburi, che si trova a ridosso dell’impianto, proprio a causa dell’inquinamento del siderurgico. A completare lo skyline industriale tarantino ci sono l’ENI, la Cementir, la discarica più grande del Mezzogiorno Italcave, l’inceneritore di Massafra.
A ricordare un passato preindustriale qualcosa c’è eccome. È il borgo antico, che ha un complesso monumentale meraviglioso.
Peccato cada a pezzi, roso dal tarlo dell’incuria dell’amministrazione locale. Lì dove l’amministrazione è insolvente, ci sono aree della città gestite volontariamente da associazioni, giovani, anziani, residenti e fruitori. È quello che accade per il Parco Archeologico di Solito – Corvisea, una delle poche aree verdi della città. Un luogo ricco di importanti testimonianze storiche, come i resti del circuito murario di età greca a protezione dei quartieri orientali della città. È qui che si è tenuta quest’anno la prima edizione del concerto del Primo maggio di Taranto, diretto dall’attore tarantino Michele Riondino e sostenuto dal movimento Comitato Cittadini e lavoratori liberi e pensanti. Nato nel 2012, i Liberi e pensanti (liberiepensanti.altervista.org) lavorano per promuovere forme alternative di lavoro che diano valore al comparto turistico, culturale e storico di quella che fu una delle città più importanti della Magna Grecia. Un’onda dal basso che dice NO all’Ilva, al disastro ambientale e all’avvelenamento del territorio tarantino, e che è protagonista, assieme a tutti gli abitanti di Taranto, del documentario Buongiorno Taranto di Paolo Pisanelli.
Non sarà la rivoluzione contadina che ha visto cadere le fortune della famiglia Franco, né le rivendicazioni dei lavoratori in difesa del posto di lavoro. Sembra essere piuttosto l’embrione di una nuova coscienza. Una coscienza moderna per cui la salute e la qualità della vita non possono essere contrapposte al diritto al lavoro.