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ragnetto

In Puglia, e in particolare nel Salento, dal Medioevo è andata diffondendosi una pratica di terapia musicale nata dal sincretismo tra antichi riti orgiastici e iniziatici pagani ed elementi del mondo contadino.

Il fenomeno, noto con il nome di tarantismo, negli ambienti popolari era chiamato pizzica, a indicare sia il ritmo della musica guaritrice che la puntura del ragno velenoso, la taranta. Questo insetto, secondo alcuni mitico, per altri invece riconducibile alla lycosa tarentula, era l’elemento simbolico centrale del rituale. Nascosto nei covoni di paglia o tra le pietre spigolose dei muretti a secco, aggrediva principalmente in estate, quando i braccianti erano impegnati nei campi per la raccolta manuale del tabacco e della spiga.

Al ragno erano attribuite specifiche caratteristiche, preferenze cromatiche e musicali e particolari inclinazioni caratteriali che ispiravano i comportamenti dei tarantati, posseduti dallo spirito dell’animale.

3Al comparire dei primi sintomi (perdita dei sensi, ansietà, ottundimento, infermità, depressione, diminuzione dell’udito e della vista), i parenti assoldavano i suonatori e predisponevano il necessario per il rituale di guarigione in spazi allestiti secondo specifiche indicazioni cerimoniali.

La cura domiciliare era molto costosa e le famiglie più povere spesso erano costrette a indebitarsi, pignorando o addirittura vendendo anche beni di prima necessità. Talvolta il padrone del latifondo dove il malato lavorava come bracciante anticipava i soldi che avrebbe poi recuperato con equivalenti prestazioni nei campi.

L’ambiente, in casa o all’aperto, era adornato con rami, pampini di vite, foglie di alberi da frutto e arbusti. C’erano poi un catino con l’acqua, dove i tarantati si rinfrescavano nelle brevi pause dalla danza, spade, simbolo del combattimento tra l’uomo e il ragno, e specchi. Durante il rito spesso erano usate anche piante aromatiche per stimolare l’olfatto e stoffe o fiori dei colori “preferiti” dal ragno.

La musica, fortemente ritmata e continua al punto da diventare ipnotica, era l’elemento cardine della sessione terapeutica che poteva durare anche diversi giorni. Gli strumenti tradizionali erano l’organetto, il violino e il tamburello, a uso prevalentemente femminile.

I musicisti inizialmente provavano diverse melodie nel tentativo di stuzzicare il malato che reagiva diversamente a seconda del tipo di veleno e delle caratteristiche del ragno che lo aveva morso e che nel ballo veniva ucciso per sfinimento. Il ciclo coreutico era suddiviso in tre fasi: prima a terra, poi in piedi, imitando i movimenti della tarantola, per culminare, sempre in piedi, con movenze più erotiche.

Simbolicamente, il tarantismo riattivava traumi irrisolti del passato che tornavano a emergere come “ri-morsi” di un conflitto interiore mai superato. Le più colpite erano le adolescenti, le spose infelici o le vedove che, in una società rurale patriarcale generalmente miope davanti alle debolezze del singolo e irrigidita da una forte repressione sessuale, nella terapia rituale potevano finalmente esprimere il proprio disagio interiore con il consenso e il supporto della comunità.

Ogni estate i sintomi potevano ripresentarsi, anche per molti anni consecutivi.

La ciclicità stagionale coincideva con la chiusura dell’anno agricolo, in cui i timori per l’esito sempre incerto dei raccolti futuri, il saldo dei debiti e il sopraggiungere della noia che accompagnava le lenti e torride estati del Tavoliere insinuavano negli animi oscuri presagi e paure ancestrali.

Per arginare e controllare il fenomeno, dal Settecento il Cattolicesimo impose la figura di San Paolo come protettore dei tarantati e introdusse il pellegrinaggio rituale alla cappella di Galatina in occasione della sua festa patronale, il 29 giugno.

Con la modernizzazione e meccanizzazione dall’agricoltura, dalla seconda metà degli anni Sessanta, il Salento si trasformò in una zona relativamente industrializzata e il tarantismo divenne per molti motivo di vergogna. Cominciò a essere considerato dalla popolazione una mera superstizione di contadini ignoranti e scomparve gradualmente nel giro di pochi decenni.

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Federica Araco
Dopo anni trascorsi in polverose biblioteche a studiare testi e autori sconosciuti ai più, sforzo coronato da una prestigiosissima, quanto inspendibile, laurea in filosofia, frequenta un master in geopolitica e uno in giornalismo sviluppando un morboso interesse per i temi sociali, culturali e per le dinamiche migratorie. Dal 2008 scrive per la rivista delle culture del Mediterraneo www.babelmed.net, lavorando come redattrice della versione italiana e traduttrice dal francese e dall’inglese. In questi anni ha collaborato e pubblicato anche presso: LiMes, Internazionale, Oltreillimes.net, QCode Magazine e LEFT. Nel 2014 approda a the trip, provando invano a imporre alla redazione cibo biologico, tisane depuranti e uno stile di vita a impatto zero. Cavalcando con coraggiosa sfrontatezza i ritmi folli dettati dal precariato contemporaneo, nel (poco e disarticolato) tempo libero gestisce un centro di yoga, conduce classi di esercizi di bioenergetica, medita, coltiva un orto sinergico, fotografa #coseacaso, studia counselling e gestisce un bed&breakfast.