di Roberto Bruccoleri
Ci son luoghi a noi così vicini ed allo stesso tempo resi lontani da coloro che costruiscono le nostre realtà con il flusso d’immagini e notizie, e che s’arrogano del diritto di imporci barriere o ponti, secondo i loro interessi e le direttive a loro imposte. Ci sono gli Anni novanta e l’Unione Europea, quell’organizzazione nata come strumento di pace e che non dimentica mai di ricordarci che da settant’anni non v’è alcun conflitto nel continente dove viviamo, che ciò non era mai avvenuto nei secoli passati, che questa è una delle più grandi conquiste del nostro tempo. Ho sempre creduto in ciò e sono sempre stato un fiero sostenitore di questi principi di unità e fratellanza, non avevo mai realizzato però che, in un paese a noi confinante e nel cuore dell’Europa, agli inizi degli Anni novanta, si è scatenato l’inferno: pulizie etniche, genocidi, stupri di gruppo, interi villaggi e città rase al suolo, deliri disumani che pensavamo che dopo la seconda guerra mondiale non dovessero mai più accadere, almeno da noi.
E poi la storia di una città unica, Sarajevo, ed il suo assurdo assedio, durato più di tre anni, il più lungo della storia moderna, dove cinquecento mila persone non potevano muoversi ed hanno vissuto senza acqua, luce e gas, con i cecchini serbi appostati sulle colline circostanti con l’ordine di sparare a vista, più di diecimila morti e cinquantamila feriti alla fine, oltre ad una popolazione sfregiata nella sua identità per tempo immemore.
Non si può parlare di Sarajevo senza ricordare per prima cosa il suo più recente passato, la sua straordinaria resistenza, l’immenso coraggio dei suoi cittadini, che nonostante le bombe e la distruzione hanno continuato a far andare avanti le scuole, i teatri, i legami e gli affetti, la propria identità di città multietnica. Chiesi ad una guida “quali sono i quartieri serbi della città?” e lui mi rispose “non hai capito, qui non viviamo insieme, qui conviviamo; nello stesso pianerottolo di un palazzo vive il musulmano sposato con la cattolica ed il serbo con la donna ebrea, qui essere di una religione o l’altra è come nel tuo paese dire che uno ha i capelli rossi ed uno castani.” Ecco, questo è lo spirito di Sarajevo, ed anche se i suoi anni più crudi lo hanno inevitabilmente alterato, ciò permane nella propria cultura, nella propria identità. Diceva Jovan Divjak, eroe militare, di origine serba, della resistenza sarajevese durante l’assedio: “L’identità non può mai essere persa poiché viene conquistata ogni giorno a contatto con gli altri, e s’arricchisce della storia, della cultura e della lingua di ognuno.”
Non riesco a tenere a bada questi sentimenti, seppur la città è stata nella sua quasi totalità ripresa e ripulita, basta cercare su google immagini di Sarajevo sotto l’assedio per rendersi conto di cosa fosse diventata, un’ immensa distesa di palazzi crivellati e carcasse di macchine usate a mò di trincee, le ferite nell’animo della popolazione sono ancora ben visibili, la loro paura è ancora toccabile, i loro ricordi sono ancora freschi, la città pullula di memorie di quegli anni cupi, paurosi, dove lo scoppio delle bombe era il rumore più frequente che scandiva il passare delle giornate. Eppure la gente ha resistito, nelle condizioni di totale disumanità e di abbandono da parte di chi doveva tutelare la pace nel continente, ritrovando nel calore dei propri concittadini la forza per credere nel futuro. “E’ necessaria la sventura per scavare certe misteriose miniere nascoste nell’intelligenza umana; serve la pressione per fare esplodere la polvere” parole di Alexandre Dumas di metà Ottocento, dimostrano come al solito che i classici ci vengono incontro per comprendere il tempestoso presente. Un dato che mi ha impressionato è il bassissimo numero di suicidi verificatosi durante gli anni dell’assedio, a dimostrazione di come il popolo fosse pronto a difendere la propria città senza timore, senza paura di morire, pur di far proseguire la storia di una città magica.
Eh sì, questa città, ove i minareti svettano nel meraviglioso centro storico ottomano Baščaršija, è uno scrigno di storie secolari e di popoli che si sono susseguiti, quattrocento anni di dominazione turca ne han plasmato la forma architettonica, si ha l’impressione di essere dentro una teca urbana con le meravigliose montagne che la circondano a protezione della sua unicità. Per gli ottomani era uno dei principali crocevia tra Istanbul e l’occidente, nel cinquecento v’erano già cinquanta alberghi in città, a dimostrazione dell’importanza strategica e commerciale del luogo, i visitatori, per i primi tre giorni di soggiorno, avevano tutto pagato, il soggiorno, l’hammam e la stalla per i cavalli, era una forma già evoluta di accoglienza, questo perché erano commercianti e portavano benefici a tutta la comunità.
Ed i cimiteri, quanto sono belli i cimiteri musulmani, per la città se ne vedono a dozzine sparsi sulle montagne, alte pietre di un bianco vivo ricordano i defunti in una forma quasi di allegria, la gente ci va a fare due passi come noi potremmo fare sul lungomare, la morte vista non come un momento oscuro ed esoterico, ma come una parte “viva” e della vita, come una luce che esalta maggiormente lo splendore della Gerusalemme d’occidente, perché sì, qui chiese ortodosse, chiese cristiane e sinagoghe si susseguono alle moschee, ai minareti, perché qui vedi una reale multietnicità, bellissime donne con gli occhi azzurri e la pelle chiara col velo ad avvolgere il loro capo, uomini musulmani con barba maomettiana che tengono per mano i figli di un biondo lucente, senti il richiamo alla preghiera degli altoparlanti dei minareti mentre passi di fronte la Chiesa serbo- ortodossa degli arcangeli Gabriele e Michele, tra le più grandi di tutti i Balcani. Questo è il melting- pot, non le New York, le Parigi, le Londra, dove le minoranze vivono nei loro quartieri-ghetto e l’integrazione è solo un pretesto per una forma di sfruttamento delle parti più deboli della società. La città nel 1867 fu conquistata dagli austriaci, che a loro volta hanno dato la loro impronta architettonica, armonizzandone la forma rispettandone il passato, c’è uno “spartiacque” nel corso principale, guardi a destra e ti sembra il medio-oriente, guardi a sinistra e ti sembra una piccola Vienna, è pura estasi per l’occhio, per la bellezza del mondo, per la magia della storia.
Qui si vive con poco, quattrocento euro al mese è lo stipendio medio, la vita è davvero molto economica, quasi non si crede di essere nel centro dell’Europa, v’è ancora molta povertà, spesso guardavo la gente che beveva un caffè, o semplicemente interloquiva tra di loro, e notavo che a tanti di loro mancano dei denti, che non possono permettersi di curare; mentre sorseggiavo un caffè in locale, una donna, che poteva avere l’età di mia madre, capendo che eravamo visitatori, si è avvicinata sorridendo e voleva venderci dei capi di abbigliamento appena comprati al mercato di fronte, questo fatto mi ha colpito e m’ha fatto riflettere sul valore che diamo alle cose, alla nostra vita, ad i beni che acquistiamo. E poi “quel” mercato, Markale, Markale 1 e Markale 2 meglio rimembrati dagli esperti di geo-politica, ricordo quelle stragi, avevo dodici anni ed alla televisione passavano quelle immagini, mia madre era sconvolta, se la prendeva con la malvagità degli uomini, con la loro depravazione, io ero piccolo, non capivo, ma intuivo qualcosa, qualcosa che avrei compreso davvero solamente venti anni dopo, quando ho attraversato quel mercato, affollato della gente del popolo, quella gente quasi invisibile alle persone colte, quella gente che quando la guardi ti sembra ancora di vedere un documentario ormai vecchio di quaranta anni sul comunismo dell’entroterra bulgaro, era proprio quella gente lì, quella gente che nel nostro immaginario rimane sempre un po’ in chiaroscuro, vestita con tessuti grevi e pesanti, lontani secoli dalla globalizzazione che viviamo, dalle mode, dalla conoscenza trasversale a cui abbiamo accesso oggi. Markale, gente semplice, povera, pasoliniana, bombardata e dilaniata due volte nel giro di pochi mesi, una strage che, grazie alle immagini divulgate dalle televisioni di mezzo mondo, fece attivare anche le nazioni unite ed i loro caschi blu, mise sotto gli occhi di tutto il pianeta la brutalità e malvagità di ciò che stava passando in quegli anni ad un’ora di volo da casa nostra, nel cuore pulsante del continente “devoto” alla pace. Karadizc, l’allora capo dei serbi di Bosnia, disse che i “turchi”, sì li chiamava così i musulmani di Bosnia, quell’attentato se l’erano fatti da soli per far intervenire le forze internazionali, arrivò anche a dire che i sarajevesi avevano inscenato una performance teatrale andando a prendere i morti all’obitorio e buttarli lì in mezzo al mercato per far intenerire i media. Karadzic oggi sta scontando una condanna al Tribunale dell’Aja (i sarajevesi lo chiamano “Albergo dell’Aja”) per genocidio e crimini contro l’umanità, nel mentre scrive poesie per bambini che vengono pubblicate in Serbia e viene descritto come un’eroe dal suo popolo. Ma questo è un altro capitolo, richiede altre e più profonde riflessioni, altra sede d’analisi.
La città comunque offre tanto da vedere, almeno tre giorni pieni, un paio di tour guidati sono più che raccomandati, si mangia benissimo e tutto costa molto poco, la città è sicurissima, la gente è molto cordiale e tutti parlano l’inglese abbastanza bene, ma è importante informarsi prima di andare sul recente passato della città, la sensibilità della popolazione è molto legata alle tematiche della guerra degli anni novanta. Assolutamente da non perdere il tunnel sotto l’aeroporto, con una guida è meglio perché ne spiega i geniali dettagli della costruzione sotto l’assedio e dell’uso che se n’è fatto, e la Vijecinca (il Comune) che era l’antica biblioteca della città, dove in tre giorni di bombardamenti mandarono in fumo quasi l’80% del loro intero scibile, un vero e proprio culturicidio effettuato dai serbi al fine di distruggere l’identità del popolo. Fondamentale anche una breve visita al punto dove l’anarchico serbo Princip nel 1914 assassinò l’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria facendo scoppiare la prima guerra mondiale.
Sarajevo è oggi una città sospesa tra un recente drammatico passato ed una voglia di entrare in Europa, la memoria è la prima pietra per costruire il futuro, la città è piena di monumenti che ricordano a tutti di non dimenticare se si vuol costruire un avvenire prospero e pacifico, ma i tempi non sono mai semplici in questa parte del mondo, come diceva la scrittrice Clara Uson nel suo libro, indicato in calce, sulla guerra nei paesi dell’ex-Yugoslavia “…il passato è sempre presente nei Balcani, le epoche si confondono e non esiste oblio.”
Letture consigliate:
- – “L’ultimo rigore di Faruk”, Gigi Riva, Sellerio
- – “Sarajevo Mon Amour”, Jovan Divjak, Infinito edizioni
- – “La figlia”, Clara Uson, Sellerio
- – “Maschere per un massacro”, Paolo Rumiz, Feltrinelli